Frantz Fanon è stato un antropologo, filosofo e psichiatra nativo della Martinica. Le sue opere sono state influenti nei campi degli studi postcoloniali, della teoria critica e del marxismo. Esiste una tesi secondo cui andrebbe fatta una netta distinzione fra il Fanon teorico della Blackness e il Fanon postcoloniale, poiché solo il Fanon “Nero/Schiavo” sarebbe quello vero, mentre i suoi tardi scritti anticoloniali andrebbero ignorati. Ma come afferrare il suo sviluppo intellettuale e politico, se non considerandolo un pensatore sia della Blackness che della liberazione nazionale? Su Scenari, un estratto di Red Africa. Questione coloniale e politiche rivoluzionarie di Kevin Ochieng Okoth.
Il pensiero politico di Frantz Fanon è divenuto una risorsa indispensabile per gli studiosi e gli attivisti che studiano gli effetti del razzismo e del colonialismo tanto nel nord che nel sud globali. La sua opera è anche divenuta uno specifico campo di ricerche, i Fanon studies, dedicate ai vari filoni dei suoi scritti, da quello iniziale, associato alla Negritudine nella versione di Césaire, agli ultimi testi di argomento psichiatrico e, ovviamente, ai suoi trattati anticoloniali. Mentre molti studi su Fanon aiutano a capire meglio una figura complessa morta prematuramente – Fanon è stato stroncato dalla leucemia quando aveva solo trentasei anni – questo campo d’indagine ha anche prodotto interpretazioni curiose, o piuttosto depistanti, della sua opera. Esiste per esempio la bizzarra tesi, avanzata dall’AP 2.0, secondo cui andrebbe fatta una netta distinzione fra il Fanon teorico della Blackness e il Fanon postcoloniale, o che solo il Fanon “Nero/Schiavo” è quello vero, mentre i suoi tardi scritti anticoloniali andrebbero ignorati. Ma questa distinzione non è così netta come vorrebbero studiosi come Wilderson (1). La rimozione del pensiero anticoloniale da parte dell’AP 2.0 si estende a quanto pare anche al suo più stimato teorico. Ma noi non possiamo afferrare lo sviluppo intellettuale e politico di Fanon se non considerandolo un pensatore sia della Blackness che della liberazione nazionale.
La distinzione fra un Fanon Nero/Schiavo e un Fanon postcoloniale si fonda su una lettura selettiva di certi passaggi di Pelle nera, maschere bianche (1952), il primo libro da lui pubblicato. In Afropessimism (2020) di Frank B. Wilderson III, Pelle nera può essere descritto come un’autobiografia o un’opera auto-teorica (cioè un tentativo di creare una filosofia a partire da sé). Anche se Fanon è attento nell’evitare di sopravvalutare le proprie conclusioni – egli scrive che dal momento “che lui è nato nelle Antille le [sue] osservazioni e conclusioni valgono solo per le Antille” – l’AP 2.0 eleva il suo bilancio del razzismo anti-nero (apparentemente onnicomprensivo) al rango di verità universale. Una più attenta considerazione del testo in questione rivela tuttavia qualcosa di diverso. Quando si spostò per la prima volta dalla Martinica a Lione, Fanon, che come i pensatori della Negritudine era stato elevato al rango di evoluto, non si considerava un nero, bensì un cittadino francese di origine caraibica. Ma diversi incontri con il razzismo – inclusa la scena descritta in Pelle nera allorché un bambino gli passa davanti gridando “Mamma guarda: un negro; ho paura!” – cambiarono la sua auto-identificazione (2). Fanon si rese conto che la società francese aveva inculcato “nel nero” il desiderio di farsi bianco o, più semplicemente, di appartenere al regno dell’umano. Tuttavia, per quanto un nero ben educato e borghese padroneggiasse la lingua o la cultura francese, non avrebbe mai potuto essere veramente bianco. Sarebbe stato sempre considerato anormale dalla società razzista francese. A volte, potrebbe sembrare che Fanon stia teorizzando la Blackness come una categoria eterna ed essenzialista. Ma non è così. In lavori teatrali giovanili come L’oeil se noie e Les mains parallèles, scritti entrambi nel 1949, “bianchezza e nerezza non sono contrapposizioni assolute bensì attributi relativi, posizionali secondo una scala di gradazioni” (3). Questo è un Fanon che, in quanto martinicano, aveva avuto l’esperienza di essere trattato come “un onorevole toubab – uomo bianco – non come un nativo (indigeno)” e che, in quanto “quasi-metropolitano”, era critico nei confronti di ogni concezione essenzialista della Blackness (4). Fanon sapeva che la sua esperienza della Blackness nella Martinica coloniale non era la stessa che in Francia. Era anche fortemente consapevole che le sue osservazioni in Pelle nera valevano solo per “il negro delle Antille”, e che si sarebbe dovuto scrivere un testo differente per “il negro dell’Africa” (5). Queste differenze di esperienza, argomenta, influenzano anche il modo in cui approcciamo la resistenza al razzismo o al colonialismo in contesti differenti; esiste, per esempio, una differenza fondamentale fra le condizioni e gli obiettivi del movimento americano per i diritti civili e la lotta anticoloniale dei neri africani (6). Mentre Fanon fatica spesso a riconciliare le due fasi della sua vita, nel suo lavoro c’è un senso di continuità. Attraverso i suoi scritti, egli tenta di venire a capo delle complesse eredità della modernità europea, che connota in termini razziali i popoli neri o coloniali attraverso la schiavitù e il colonialismo. Per Fanon, è questa eredità che collega la sua esperienza in quanto nero in Francia al suo successivo attivismo anticoloniale.
Gli scritti giovanili di Fanon sono caratterizzati da un “esistenzialismo surrealista” ispirato dal suo primo maestro Aimé Césaire. A parte Césaire, a influenzarlo maggiormente erano allora le filosofie esistenzialiste di Kierkegaard, Nietzsche e Sartre e la fenomenologia di Maurice Merleau-Ponty, alle cui lezioni aveva assistito (7). La trasformazione del primo Fanon in un teorico interessato alle ontologie della Blackness si fonda quasi interamente su una cattiva traduzione inglese, e conseguente incomprensione, del famoso quinto capitolo di Pelle nera. “The Fact of Blackness”, che non è un’asserzione ontologica, è più correttamente tradotto con “L’esperienza di vita del Nero” (“L’expérience vécu du Noir”), che ne fa un capitolo sull’esperienza di vita dei neri e non sull’essere nero. Come spiega Lewis Gordon, il termine “esperienza di vita” deriva dalla filosofia di Merleau-Ponty, il quale era in cerca di una traduzione accurata della parola tedesca Erlebnis. Il termine non dovrebbe essere “inteso in lingua inglese come ‘la datità oggettiva o un evento’” ma come “un processo in ragione del quale gli oggetti acquisiscono il proprio status in quanto tali per la coscienza” (8). Non esiste, quindi, nessuna datità della Blackness in quanto condizione ontologica (nel senso che l’AP 2.0 attribuisce al termine), bensì solo l’esperienza di vita di essere razzializzati in quanto neri. L’esperienza della razzializzazione genera l’impressione che la Blackness sia una condizione inevitabile ed eterna; di conseguenza la trasforma in realtà percepita (9).
In un saggio del 1993 sulla “Appropriazione di Frantz Fanon”, Cedric J. Robinson lamenta già l’uso piccolo borghese di Fanon per giustificare progetti intellettuali “post o anti-rivoluzionari”(10). C’è stato uno sforzo deliberato per sopprimere l’auto-critica della borghesia nazionale e dell’intellettuale colonizzato che emerge nei tardi lavori di Fanon. Commentando il saggio di Robertson, Gordon scrive che Fanon era un rivoluzionario le cui idee “appaiono sospette alla fine di un secolo iniziato con la chiamata alla rivoluzione […] e conclusosi con dubbi antirivoluzionari (se non controrivoluzionari)”(11). Questi dubbi controrivoluzionari sono evidenti nei lavori di studiosi come Henry Luis Gates Jr. o Wilderson, che presentano la figura immaginaria di un Fanon puramente psicoanalitico come l’unica vera. Questo pessimo uso di Fanon è un esempio particolarmente irritante di come il pensiero anticoloniale sia stato distorto dall’università neoliberale e svuotato del suo contenuto rivoluzionario. Leggendo parti decontestualizzate dei primi lavori di Fanon, ignorando gli scritti successivi e la totalità della sua biografia, questi studiosi tentano di integrare Fanon nella loro distorta genealogia del radicalismo nero. E dal momento che Pelle nera, maschere bianche rappresenta per gli intellettuali neri dell’accademia americana una lettura più comoda dei Dannati della terra (1961) o de L’anno V della rivoluzione algerina (1959) – i testi più importanti per le lotte di liberazione nazionale del continente – essi si sono schierati per il giovane Fanon e hanno tentato di isolarlo dal resto della sua opera.
Il mio scopo non è qui offrire un bilancio esaustivo della vita e del pensiero di Fanon, ma semplicemente di confutare la visione ristretta di un radicalismo nero che sopravvaluta l’importanza del punto di vista di una diaspora borghese, e che rifiuta di prendere seriamente la (auto)critica di Fanon dell’intellettuale “nativo” o colonizzato. Nei Dannati della terra, egli spiega che l’intellettuale nativo gioca un ruolo importante nel processo di decolonizzazione, ma che il suo processo personale di trasformazione differisce da quello delle masse contadine. All’inizio, l’intellettuale soffre di una condizione psicologica che lo induce a identificarsi con l’oppressore; ma durante la lotta di liberazione inizia a mettere in discussione i valori occidentali che gli sono stati inculcati (12). Ciò aiuta l’intellettuale nativo a superare le riserve mentali nei confronti della lotta, e lo incoraggia a parlare in favore della causa del proprio popolo. Ma egli evita accuratamente di schierarsi da una parte o dall’altra nel conflitto fra colonizzatori e colonizzati. Fanon critica gli intellettuali che si lasciano facilmente convincere dalla borghesia coloniale che citano il bene comune quale valida ragione per rifiutare la lotta violenta. È per questo, argomenta Fanon, che l’intellettuale nativo non può giocare un ruolo importante nella lotta di liberazione; è il popolo, che resta saldo sull’obiettivo, che può liberarsi. Questa attitudine critica nei confronti della élite intellettuale può essere spiegata con il disagio provocato dal privilegio di una libertà che la società bianca le concede mentre continua a sfruttarne il popolo. Il lavoro dell’ultimo Fanon può dunque essere letto come un tentativo di ripudiare tale privilegio e schierarsi dalla parte degli oppressi.
Al giovane Fanon, individualizzato e isolato dall’insieme del pensiero anticoloniale, viene garantita una comoda collocazione nella torre d’avorio. Ma perché ciò non vale per rivoluzionari neri come Amílcar Cabral, uno dei massimi teorici anticoloniali del ventesimo secolo? L’avversione accademica per Cabral nasce dalla mancanza d’interesse per il cruciale lavoro quotidiano della lotta rivoluzionaria e dalla feticizzazione della rivoluzione in quanto idea astratta. Cabral insisteva sul fatto che la rivoluzione non può mai essere separata dai bisogni quotidiani del popolo, e che non bisogna combattere solo la guerra delle idee ma lottare per benefici materiali e migliori condizioni di vita. Invece di decontestualizzare Fanon, perché non leggerlo assieme ad altre figure anticoloniali come Cabral, che offrono importanti intuizioni nel campo della strategia rivoluzionaria? Naturalmente, ciò vorrebbe dire confrontarsi con Pour la Revolution Africaine (1964), pubblicato in forma anonima quando Fanon collaborava con il giornale del Fronte Nazionale di Liberazione algerino, El Moudjahid. Questi scritti toccano più direttamente i problemi del neocolonialismo e dell’imperialismo, e cominciano a occuparsi della strategia e della tattica rivoluzionarie. Questo Fanon insisteva sul fatto che la lotta algerina per l’autodeterminazione dimostrava che una nuova società avrebbe potuto nascere solo nel contesto della liberazione nazionale (13). Anche questo merita di essere letto.
Ma cosa c’era nell’Algeria a indurre Fanon, un nero della Martinica, a identificarvisi così fortemente? La situazione difficile degli algerini in Francia gli aveva aperto gli occhi sul modo in cui altri gruppi razzializzati sperimentavano il razzismo di ogni giorno. Nel suo studio psichiatrico sulla “Sindrome nordafricana” (1952), Fanon analizza la misteriosa malattia che affliggeva i nordafricani in Francia. Partendo dai concetti freudiani di filogenesi e ontogenesi, Fanon sviluppa un approccio sociogenetico alle nevrosi e patologie che affliggono i soggetti razzializzati o colonizzati. Mentre “l’approccio ontogenetico si riferisce all’organismo individuale” e “l’approccio filogenetico si riferisce alle specie”, l’approccio sociogenetico “pertiene a ciò che emerge dal mondo sociale, il mondo intersoggettivo di cultura, storia, linguaggio ed economia”(14). Dimostrando che queste nevrosi e patologie erano socialmente prodotte, non ontologicamente date, Fanon sfidava il pregiudizio razzista degli psichiatri che liquidavano questi dolori inspiegabili come malattie immaginarie. Dando per scontata la costruzione coloniale del nordafricano costoro avevano sorvolato sui problemi della “incarnazione alienata” che affliggeva i loro pazienti. In effetti, era la società razzista che faceva ammalare gli algerini – e gli ospedali psichiatrici non facevano che peggiorare le cose. Fanon capì presto che non poteva esservi trattamento psichiatrico per problemi di alienazione sociale; solo una trasformazione totale dei rapporti sociali avrebbe curato i soggetti razzializzati e colonizzati delle loro malattie (15).
La svolta algerina di Fanon si può leggere anche attraverso il romanzo di William Gardner Smith Il volto di pietra pubblicato per la prima volta nel 1963, un anno dopo l’indipendenza algerina e due anni dopo la morte di Fanon (16). Il protagonista, Simeon Brown, un nero americano che all’inizio del racconto perde un occhio in un brutale attacco razzista, va a Parigi per sottrarsi all’impulso di vendicarsi uccidendo un bianco. Arriva in una Parigi che ci è stata resa fin troppo familiare dai resoconti letterari di narratori neri, una Parigi dove gli afroamericani possono apparentemente sfuggire all’onnipresente razzismo degli Stati Uniti – per dirla con Baldwin: “Non potevo odiare i francesi, perché mi isolavano”. Ma all’inizio del secolo Claude McKay si era già lamentato del fatto che “l’intellighenzia nera [a Parigi] è completamente schierata con la Francia”, e ciò resta vero nel racconto di Smith: il piccolo gruppo di espatriati che ama frequentare nei caffè della Rive Gauche, presta scarsa attenzione alla difficile condizione degli altri popoli razzializzati – specialmente “gli arabi” – che vivono nella capitale francese (17). Per Simeon e i suoi amici, Parigi offre un antidoto agli Stati Uniti. Qui essi possono finalmente partecipare ai rituali della società borghese (bianca). In ogni caso, sono riluttanti a sostenere la lotta degli algerini e preferiscono tenersi fuori dai guai.
La società è ovviamente ancora razzista, ma non verso Simeon e il suo gruppo di amici emigrati. Quando Simeon viene coinvolto in una rissa dopo essere intervenuto per contrastare un’aggressione sessuale, realizza di non essere più “l’altro” in Francia. I poliziotti lasciano andare Simeon mentre l’algerino con cui si è azzuffato viene arrestato. Quando l’algerino, Hossein, incontra Simeon il giorno dopo, gli fa presente che lui in Francia occupa una posizione privilegiata (“Hey! Come ci si sente ad essere un bianco? […] I nigger siamo noi qui!”). Sebbene Hossein all’inizio mantenga le distanze, il suo amico Ahmed, un giovane algerino studente in medicina, si lega a Simeon. Quando comincia a sentirsi più in sintonia con gli algerini di Parigi, Simeon tenta di perorare la loro causa presso i suoi amici neri. Costoro, tuttavia, respingono ogni discorso sul proprio privilegio, affermando che “gli Algerini fanno la parte dei bianchi […] quando stanno con i neri”. Naturalmente, gli algerini nutrono a loro volta pregiudizi; in una discussione con la fidanzata di Simeon, sopravvissuta a un campo di concentramento polacco, uno degli amici di Ahmed manifesta il suo antisemitismo, provocando lo sgomento di Simeon. Ma quando due donne algerine gli raccontano degli stupri e delle torture commessi dai soldati francesi in Algeria, decide di unirsi alla lotta.
Il volto di pietra raggiunge il climax quando Simeon si unisce a una manifestazione organizzata dall’FLN a Parigi. Segue una vivida descrizione del massacro del 1961 a Parigi, quando la polizia assassinò centinaia di Algerini e gettò i loro corpi nella Senna. (Il volto di pietra è uno dei primi resoconti letterari del massacro). Come sottolinea Adam Shatz, “la stesura originale […] finiva con Simeon che partiva per l’Africa, come i suoi amici algerini lo avevano sollecitato” (18). Ma nella versione definitiva egli torna invece negli Stati Uniti per unirsi al movimento dei diritti civili (“una battaglia più dura di qualsiasi guerriglia su una montagna brulla”). L’accademico Paul Gilroy ha interpretato questa fine come un ritrarsi dalla solidarietà antimperialista, e una “capitolazione di fronte alle esigenze di una versione più limitata di parentela culturale che pure le argomentazioni universaliste di Smith sembravano avere trasceso” (19). Ma Shatz ritiene che potrebbe esserci un altro modo di interpretare la fine del racconto: “La lotta algerina non gli ha dato solo il coraggio di combattere la faccia di pietra di cui si è liberato; ha trasformato la sua comprensione del razzismo americano inscrivendola in una più ampia storia della dominazione occidentale”. Tuttavia ciò suona poco convincente ove si consideri che Smith, diversamente dal suo protagonista, non aveva alcun interesse a tornare negli Stati Uniti, paese che odiava. Scelse invece di stabilirsi nel Ghana di Kwame Nkrumah.
Come Smith, Fanon andò in Africa. Arrivò nel 1953, convinto che avrebbe potuto usare il suo addestramento medico per aiutare gli algerini a combattere i loro colonizzatori. Fu inizialmente impiegato al Blida-Joinville Hospital di Algeri per curare sia i soldati francesi che avevano torturato degli algerini che le loro vittime (20). Ma quando scoppiò la guerra di liberazione, Fanon usò l’ospedale per addestrare i combattenti dell’FLN a diventare medici e infermiere. Fu espulso dall’Algeria nel 1957 per le sue attività politiche, solo per ritornare in Nord Africa sotto nome falso e raggiungere l’FLN a Tunisi. Più tardi, in quanto membro e rappresentante del governo algerino provvisorio in esilio, lo aiutò ad acquisire forniture mediche e armi creando delle linee di rifornimento attraverso il Sahara. Fanon dedicò la maggior parte dei suoi ultimi anni di vita alla causa algerina. Per lui si trattava dell’inizio di un progetto universale che avrebbe liberato i popoli colonizzati e permesso loro di intraprendere un processo di “disalienazione”, in modo che potessero finalmente essere liberi (21). L’indipendenza, sperava, avrebbe generato le condizioni spirituali e materiali per l’emergere di un nuovo soggetto decolonizzato. Ma Fanon non riuscì a essere testimone dell’esito della guerra di liberazione (anche se non era esattamente questo che aveva sperato)(22). Egli morì nel 1961 in un ospedale degli Stati Uniti, pochi mesi prima che l’Algeria ottenesse finalmente l’indipendenza.
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1 In Whither Fanon (2018), David Marriott offre un ritratto più sfumato di Fanon, che tenta di leggere i suoi testi psicoanalitici assieme agli scritti politici assumendo a premessa iniziale il primato del suo lavoro clinico. Benché degno di nota, l’approccio di Marriott presenta alcuni limiti. Per esempio, Marriott salta avanti e indietro fra soggetto nero e soggetto colonizzato, usando il secondo per costruire una teoria della Blackness come “n’est pas”, che definisce come un’interruzione di senso. Ma questa mossa teorica rimuove la molteplicità di esperienze dei soggetti coloniali razzializzati, molti dei quali non erano neri. Vedi D.S. Marriott, Whither Fanon? Studies in the Blackness of Being, Stanford University Press, Stanford 2018.
2 Cfr. F. Fanon, Black Skin, White Masks, Grove Press, New York 2008, p. 91; tr. it. Pelle nera, maschere bianche, Edizioni ETS, Pisa 2015.
3 Cfr. F. Fanon, Alienation and Freedom, tr. ing. di S. Corcoran, a cura di J. Khalifa, R.J.C. Young, Bloomsbury Academic, London 2018, p. 32.
4 Ivi, p. 38.
5 F. Fanon, Black Skin, White Masks, cit., p. 7.
6 Cfr. F. Fanon, The Wretched of the Earth, tr. ing. di C. Farrington, Penguin, London 2001, p. 173-174; tr. it. I dannati della terra, Einaudi, Torino 2007.
7 F. Fanon, Alienation and Freedom, cit., p. 17.
8 A.T. Judy, citato in L.R. Gordon, What Fanon said. A Philosophical Introduction to His Life and Thought, Hurst, London 2015, p. 47.
9 Come afferma Sylvia Wynter, il tipo di soggettività generato nei popoli razzializzati è un prodotto del “modo genere-specifico di sociogenia dell’Occidente contemporaneo”: essi si autoesperiscono “in termini di maschere bianche, ciò che è fenotipicamente normale solo per quello specifico sottoinsieme di specie umana che sono gli europei”. Vedi S. Wynter, Human Being as Noun? Or Being Human as Praxis? Towards the Autopoietic Turn/Overturn. A Manifesto, testo non pubblicato, postato sul “Frantz Fanon Blog”, 27 ottobre 2014.
10 Cfr. C.J. Robinson, The Appropriation of Frantz Fanon, in C.J. Robinson, On Racial Capitalism, Black Internationalism and Cultures of Resistance, a cura di H.L.T. Quan, Pluto Press, London 2019, p. 295.
11 L.R. Gordon, What Fanon Said: A Philosophical Introduction to His Life and Thought, cit., p. 18.
12 F. Fanon, The Wretched of the Earth, cit., p. 36.
13 Cfr. F. Fanon, A Dying Colonialism, tr. ing. di H. Chevalier, Grove Press, New York 2007, p. 179; tr. it. Scritti politici. L’anno V della rivoluzione algerina. Vol. 2, DeriveApprodi, Roma 2007.
14 L.R. Gordon, What Fanon Said: A Philosophical Introduction to His Life and Thought, cit., p. 22.
15 Qui Fanon introduce il concetto di “morte in vita” che è così centrale nei lavori di Wilderson, Jared Sexton e Calvin Warren: “Egli si sentirà vuoto, senza vita, un morto da questo lato della morte, un morto in vita”. Ma questa è una condizione che non è peculiare del Nero/Schiavo – anche gli algerini colonizzati sperimentano lo stesso abisso fra la loro esperienza individuale e la struttura sociale. Vedi L.R. Gordon, op. cit., p. 77.
16 W.G. Smith, The Stone Face, New York Review Books, New York 2021; tr. it. Il volto di pietra, Edizioni Clichy, Firenze 2024.
17 Cfr. C. McKay, The Negroes in America, a cura di A.L. McLeod, Kennikat Press, Port Washington 1979, p. 49; W.G. Smith, op. cit., p. xvii.
18 A. Shatz, introduzione a W.G. Smith, op. cit., p. xx.
19 Ivi, p. xxi.
20 Vedi “Guerra coloniale e disturbi mentali”, cap. 5 de I dannati della terra. 21 Fanon si trovò spesso in conflitto con le domande politiche della lotta algerina, anche e specialmente in merito al ruolo della religione e della cultura nel movimento anticoloniale. A dispetto della sua attitudine critica nei conrovafronti della modernità europea, egli restava, agli occhi di molti, un assimilato, il cui punto di vista nel comprendere la situazione algerina era condizionato dalla posizione di classe. Vedi A. Omeish, Reading Fanon in Algeria, Reading Algeria beyond Fanon, in “Africa Is a Country”, 11 gennaio 2023.
22 “I dannati della terra è profetico, ma non per i motivi che Fanon avrebbe desiderato. Per quanto avesse pensato il libro come un manifesto della rivoluzione a venire, egli era consapevole delle potenziali insidie della decolonizzazione”. Vedi A. Shatz, Where Life is Seized, in “London Review of Books”, 19 gennaio 2017. Samir Amin, che descrive il regime nazionalista emerso dopo l’indipendenza come “non molto più promettente del nasserismo”, è altrettanto sobrio nel riconoscere le conquiste dell’FLN.