Sembra essere una tentazione presente in molti scrittori quella di far aderire la propria vita al proprio immaginario narrativo, in un sottile filo di corrispondenze in cui non è tanto la vita ad ispirare la scrittura, quanto l’opera ad ispirare la forma dell’esistere. Questo vale per tutti i grandi scrittori del Novecento, da Kafka a Jünger, da Cannetti a Bernhard, da Céline a Joyce, da Walser a Nabokov. Nel caso di Kafka, questa tensione tra vita e opere si risolve non solo nella morte a lungo pre-annunciata e quasi desiderata, ma anche nella composizione di un opus, in larghissima parte postumo, pluristratificato e interconnesso, che appare, agli occhi del lettore, come un labirinto venuto male, abbandonato a sé stesso, pieno di vie di fuga e scappatoie, eppure al tempo stesso insormontabile.
Il tentativo di capire Kafka letterato e uomo lo hanno fatto in molti, fallendo nella maggior parte dei casi. È quasi superfluo menzionare Max Brod, l’esecutore fallimentare infedele che invece di bruciare tutti gli scritti dell’amico ne curò le edizioni critiche: accortosi obiettivamente che rispetto ai suoi libri quelli di Kafka erano infinitamente superiori, si giocò la carta con i posteri presentandosi come il curatore e l’unico legittimo interprete soprattutto degli scritti più esoterici, ma non appena i manoscritti finirono tra le mani di una pluralità di studiosi vennero messi in evidenza i tagli arbitrari e le scelte editoriali discutibili condotte da Brod. La sua credibilità venne ulteriormente minata dalla controversia con Günther Anders, che nel mondo post-atomico aveva scritto uno dei più affascinanti saggi in materia di “kafkologia”, e ancora oggi manca un’edizione critica definitiva dei romanzi di Kafka come Il castello o Il processo, proprio perché i manoscritti e gli appunti di Kafka, i relicta del suo corpo a corpo con la scrittura, impediscono di dare ai suoi scritti una forma definitiva e conclusa.
Molti scrittori e filosofi hanno scritto di Kafka, ma è fisiologico, sintomatico, Kafka è la scrittura. Sartre, Camus, Hannah Arendt, Michel Foucault, Milan Kundera, Jacques Derrida, Isaiah Berlin, György Lukács, Bertolt Brecht, Susan Sontag, George Bataille, Vladimir Nabokov, Karl Popper, Paul Celan, David Foster Wallace, Slavoj Žižek… La lista potrebbe essere infinita, come è infinito l’elenco delle interpretazioni di Kafka ora in chiave misticheggiante, ora in chiave psicologizzante, ora in chiave sociologica, ora in chiave politica. In breve: solo della Bibbia esistono più commentari. Eppure Kafka non voleva scrivere un Terzo Testamento, voleva solo trovare una via all’espressione letteraria che, ai suoi occhi, non trovò mai, lasciando tutto incompiuto, o meglio, senza-fine. E proprio per le indiscutibili ascendenze dell’immaginario ebraico sugli scritti e sul pensiero kafkiano non è un caso se tre delle più penetranti analisi dell’opera di Kafka provengono da altrettanti pensatori ebrei di lingua tedesca del Novecento: Walter Benjamin, Theodor W. Adorno ed Elias Cannetti.
Walter Benjamin, i cui scritti sullo scrittore di Praga sono stati da poco raccolti nel volume Il mio Kafka edito da Castelvecchi, fu uno dei primissimi critici a occuparsi dell’opera kafkiana, con un importante articolo scritto nel 1934 per il decennale della morte che tracciò dei punti fermi per tutte le future interpretazioni della letteratura di Kafka. “Chi era Kafka? Uno che ha fatto di tutto per impedire una risposta questa domanda. Se è inequivocabile che ci sia lui stesso al centro dei suoi romanzi, quello che però gli capita lì è tale da rendere anonimo chi ne fa esperienza, da sottrarlo alla vista, nascondendolo nel cuore della banalità”. È nell’ottica dell’anonimato, e della preistoria del diritto, che si capisce la direzione in cui Kafka prova invano a marciare: una liberazione assoluta, impossibile però in vita, e insperata post mortem. Infiniti legacci trattengono l’uomo alla civiltà, alla sua società, ai suoi simili, alla sua famiglia, al suo passato. Come si legge in un appunto di Benjamin in vista di un intervento in radio, “Kafka riporta tutta l’umanità a una condizione del passato. Spazza via millenni di sviluppo della civiltà, senza dire nulla del presente. I romanzi di Kafka sono ambientati in un mondo palustre. È questo mondo, e non il nostro, che Kafka nei suoi libri mette a confronto con quello ebraico della legge”. Verrebbe da pensare che Kafka miri non a una violazione o a un’abrogazione, bensì a uno scavalcamento della Legge, ma tutti i suoi protagonisti restano al di qua della legge, del verdetto, della condanna, al di qua della mostrificazione, al di là della splendida fuga verso il Nulla che pure potrebbe darsi in una morte a ritroso.
Analizzando Kafka con un palpabile senso di identificazione ed empatia, Benjamin va ben al di là delle armi testuali e meta-testuali solitamente adoperate dai critici, e arriva a recuperare una foto di Kafka da bambino che gli pare uscita a “da uno di quegli atelier del XIX secolo”, dietro i cui occhi scorge il “desiderio di diventare un indiano” più volte alluso nei racconti di Kafka, e in modo particolare in Un medico di campagna. È proprio dalle prospettive deformi e deformanti alla base dei racconti di Kafka che Benjamin resta affascinato, rimarcando come “si possono leggere a lungo le storie di animali di Kafka”, come Ricerche di un cane o La tana, “senza assolutamente percepire che non si tratta di esseri umani”. Anche commentando il racconto breve de Il silenzio delle Sirene Benjamin rileva che “Odisseo sta esattamente nella soglia che separa mito e favola. La ragione e l’astuzia hanno inserito nel mito i loro stratagemmi; i suoi poteri smettono di essere indomabili. La favola riporta la vittoria su questi poteri. E Kafka scrive favole per dialettici, anche quando rimaneggia leggende”.
Tra i tanti meriti del Benjamin esegeta di Kafka c’è stato anche quello di essere stato tra i primissimi ad accorgersi dei forti limiti della lettura che Max Brod dava dell’opera e del pensiero dell’amico defunto. In una recensione negativa della biografia di Kafka firmata da Max Brod, Benjamin constata una radicale contraddizione tra la tesi e l’atteggiamento dello scrivente – “la tesi è che Kafka fosse avviato alla santità, l’atteggiamento del biografo, invece, è la più totale bonarietà”. Rispetto alle opere di Kafka ai tempi pubblicate, Benjamin insiste sull’aspetto grottesco, comico, quasi fescennino, e in diretto rapporto con l’immaginario ebraico, in particolar modo nei suoi aspetti esoterici, talmudistici o gnostici. “A ogni modo, credo che la chiave d’accesso a Kafka finirà nelle mani di chi riuscirà a estrarre dalla teologia ebraica i suoi lati comici. C’è mai stato un uomo del genere? E tu saresti maschio abbastanza per essere quell’uomo?”, scriveva Benjamin in una lettera del 4 febbraio 1939 all’amico Gershom Scholem, passato alla storia come il fondatore dei Jewish studies all’università di Gerusalemme. “In particolare Amerika è una gran clownerie. E per quanto riguarda l’amicizia con Brod, penso di non essere lontano dal vero nel dire che Kafka, come Stanlio, sentiva l’obbligo fastidioso di cercarsi il suo Ollio – e l’ha trovato in Brod”.
Sempre a proposito di cinema Walter Benjamin si lascia andare a una notazione veramente strepitosa, mettendo nero su bianco le oscure simmetria tra Franz Kafka e Charlot, entrambi rappresentanti di un everyday man che si trasforma a simbolo universale: “una vera chiave di interpretazione di Kafka è nelle mani di Chaplin. Come Chaplin dà luogo a situazioni in cui l’essere reietti e diseredati, ovvero l’eterna sofferenza umana, si combina in modo unico con le circostanze più particolari dell’esistenza contemporanea, ovvero il sistema finanziario, la metropoli, la polizia e così via, allo stesso modo anche in Kafka ogni accadimento è bifronte, cioè interamente immemoriale, senza storia, eppure anche della più recente, giornalistica attualità”. “I romanzi di Kafka non sono copioni per il teatro sperimentale. I suoi romanzi sono piuttosto le ultime didascalie in via di estinzione del cinema muto (che non per nulla si è estinto quasi esattamente in contemporanea con la morte di Kafka); l’ambiguità del gesto sta tra lo sprofondare nel mutismo ed elevarsi al di sopra di esso nella musica”.
Theodor W. Adorno raccolse il testimone lasciatogli da Walter Benjamin – con il quale aveva intrattenuto per anni un sodalizio intellettuale, rappresentando attraverso l’Istituto delle Scienze Sociali anche una delle poche fonti di sostentamento di Benjamin dopo la fuga dalla Germania nazista – con i suoi Appunti su Kafka, scritto nel 1952 e poi incluso nella raccolta Note sulla letteratura. Già nel 1934 Adorno aveva ringraziato Benjamin per la profondità del suo saggio su Kafka, e condiviso con lui “il mio più antico tentativo di interpretare Kafka, risalente a nove anni fa: una fotografia della vita terrena dalla prospettiva del redento, del quale non compare nulla se non un lembo del panno nero, mentre l’inquadratura terribilmente storta dell’immagine non è altro che quella della camera messa in obliquo”. Diciotto anni dopo, e con una guerra mondiale di mezzo di cui Benjamin fu una delle infinite vittime, Adorno prova a tirare le somme in un momento in cui su Kafka si è già detto fin troppo, ma ben poco di essenziale: “la popolarità di Kafka, il sentirsi a suo agio nel disagio, che lo riduce a una sorta di ufficio informazioni sulla situazione, eterna o attuale, dell’essere umano e che, con risposte sbrigative o disinvolte, neutralizza lo scandalo che sta alla base della sua opera, rende restii a unirsi e aggiungere, alle opinioni correnti, un’altra opinione, per quanto eterodossa”, scrive Adorno nell’incipit del suo saggio.
Theodor Adorno, forte del suo ruolo di frontman della Scuola di Francoforte e ormai definitivamente trapiantato negli Stati Uniti dove si era rifugiato al momento dell’avvento del nazismo in Germania, parte da un rifiuto in blocco di quasi tutte le interpretazioni di Kafka e su Kafka proposte nei quasi tre decenni dalla morte dello scrittore, convinto che “poco di ciò che è stato scritto su di lui conta, il più è esistenzialismo”. Com’è tipico nelle teorizzazioni dell’Adorno maturo, la sociologia si combina con una dialettica marxiana ampiamente rivisitata, un’estetica forte nell’etica e una visione della religione come struttura di potere e di sapere che apre lo spazio a infinite problematizzazioni. I racconti di Kafka sono, agli occhi di Adorno, “parabole a cui è stata sottratta la chiave – e anche colui che cercasse di trasformare ciò in una chiave verrebbe tratto in inganno, perché confonderebbe la tesi astratta dell’opera di Kafka, l’oscurità dell’esistenza, con il suo contenuto. Ogni proposizione dice: interpretami, ma nessuna tollera l’interpretazione”. Quella del filosofo tedesco non è un’interpretazione, è una disamina a volo d’uccello, con la quale Adorno intende in qualche modo proseguire la scia tracciata dall’amico e mentore Benjamin nel 1934, ma portando il discorso a un livello ulteriore di cultura e metastoria. “Come Kafka si rapporta al sogno, così il lettore dovrebbe rapportarsi a Kafka”, raccomanda Adorno, “insistere sui dettagli incommensurabili e opachi, sui punti ciechi”, i piccoli enigmi che smuovono tutta la letteratura kafkiana.
Adorno fa riferimento all’interpretazione arrischiata di Klaus Mann, secondo cui il regno di Kafka assomiglierebbe e prefigurerebbe il Terzo Reich, ma la relativizza e la espande: “il metodo di Kafka venne confermato quando i tratti liberali obsoleti, presi in prestito dall’anarchia della produzione delle merci, da lui accentuati, tornarono nella forma politica di organizzazione dell’economia in rapido sviluppo”, da cui la mescolanza nazista tra Stato e partito, la formazione, legalizzata, di una forza di polizia autonoma, un mito del potere che si interfaccia con le logiche di un’usurpazione. Ma usurpare il potere è un gesto attivo, mentre tutta la letteratura di Kafka è un inno alla passività, una perenne rinuncia, l’accettazione sacrificale del ruolo della vittima, del monstrum – una declinazione. “K. chiuse subito la porta, battendovi sopra coi pugni, come se così potesse chiuderla meglio”, si legge in uno dei passaggi più angoscianti de Il castello. “È questo, il gesto dell’opera stessa di Kafka, la quale, come già quella di Poe, distoglie lo sguardo dalle visioni estreme, quasi che nessun occhio potesse sopravvivere alla loro vista: in quest’ultima, l’immobile e l’effimero si mescolano”, è il commento di Adorno.
Tutta la grande letteratura del Novecento è oppressa dall’ambizione dell’universalità. Quest’universalità del racconto è raggiunta in Kafka per via di levare, immaginando personaggi detonati da malapena da un nome o da una lettera, senza psicologia, senza passato, costretti a una mera reattività di fronte all’incedere degli eventi esterni e forse di un destino crudeli, isolati nella propria comunità ancor più di quanto pensassero possibile. “Come anche in Proust e Joyce, la monade senza finestre si rivela una lanterna magica, madre di tutte le immagini. Ciò su cui si erge l’individuazione, ciò che essa nasconde e ciò che genera da sé, è comune a tutti, ma si coglie solo nell’abbandono e nell’immersione di chi non si guarda intorno”, commenta Adorno. “Per poter capire come si arrivi alle esperienze anormali che in Kafka riscrivono la norma, bisogna aver subìto un incidente in una grande città: innumerevoli testimoni si fanno avanti e si identificano come conoscenti, come se tutta la comunità si fosse radunata per assistere al momento in cui il potente autobus si scontra con l’esile berlina”.
Se Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte di Benjamin e gli Appunti su Kafka di Adorno sono stati recentemente ripubblicati assieme da Mimesis sotto il comune titolo di Kafka senza chiavi, anche Adelphi ha approfittato del centesimo anniversario della morte per riunire in un unico volume intitolato Processi tutti gli scritti di Elias Canetti sullo scrittore praghese. Di Canetti era rimasto celebre nella memoria degli appassionati di Kafka il saggio L’altro processo che accompagnava la pubblicazione dell’epistolario tra Kafka e Felice Bauer, ma Processi contiene anche il saggio del 1948 Proust – Kafka – Joyce, il saggio del 1980 Hebel e Kafka e, soprattutto, miriadi di appunti privati di Canetti su Kafka che vanno dal 1946 al 1994, l’anno della morte. E se Benjamin e Adorno erano essenzialmente filosofi che si cimentavano con l’opera letteraria di Kafka per analisi ad ampio raggio e di alta penetrazione, gli scritti di Canetti sono un vero e proprio atto d’amore da scrittore a scrittore, con l’austriaco che arriva a scrivere che “ogni riga di Kafka mi è più cara di tutta la mia opera”.
Uno dei tanti pregi di Elias Canetti, che si coglie nella sua monumentale autobiografia che comincia da La lingua salvata non meno che nei molti saggi dedicati ad altri scrittori che costellano la sua opera, era il suo desiderio di rimarcare la gratitudine verso gli autori che lo avevano plasmato, inserendosi in una vera e propria genealogia della letteratura tedesca di cui Canetti fu uno degli ultimi e più maturi frutti. Nel caso di Kafka, “fu nell’inverno 1930-31, mentre scrivevo Autodafè, che mi imbattei per la prima volta in lui. Alla libreria Lanyi avevo comprato La metamorfosi e Un digiunatore”, ricorda Canetti. “Oggi ho la sensazione che, senza La metamorfosi, Kien non sarebbe mai diventato di pietra e il suo ultimo incontro con Therese nell’appartamento si sarebbe svolto diversamente”. Nella sua incompletezza, l’opera di Kafka si staglia davanti agli occhi di Canetti come monumentale, e la lettura dei Diari non può dare altro che un’incredibile sorpresa di fronte all’esitazione con cui Kafka si interfacciava con la vita quotidiana: “davanti a Kafka qualsiasi scrittore è modesto. Curioso pensare davanti a chi si sentisse modesto lui”. Anche rispetto ai modelli letterari rivendicati da Kafka nei suoi appunti e lettere Canetti adopera un gioco di specchi: “Kafka ammira Strindberg cime io ammiro Kafka. Ciascuno di noi ammira ciò che gli manca”.
Kafka è, per Canetti, maestro di stile, di vita, di forma. “Non c’è nulla di superfluo in Kafka, pur nel suo dilungarsi; è semplice in ogni sua declinazione. Ha parecchio del puritano, ancor più dell’ebreo, forse più di tutto sarebbe giusto chiamarlo esseno; si tratta dell’antica forma ebraica del puritano, che egli per l’appunto incarna”. È l’essenzialità il carattere sommo della narrativa kafkiana: “Kafka ci dà solo le ossa. Ma sono accuratamente rosicchiate”. L’umiltà è invece il grande insegnamento della morale laica kafkiana: “bisogna essere un verme come Kafka per diventare un uomo”, sintetizza Canetti. Nell’eterna oscillazione tra sapere e potere, Kafka sceglie l’assoluta resa al potere, Canetti sceglie l’analisi e la disamina del potere, e già solo per questo si sente inferiore al praghese: “non posso essere come Kafka, il suo regno era l’impotenza. Per questo lo si dovrà amare sempre. Per me, il cui regno è la potenza, il potere, si può nutrire solo avversione, perché a nessuno che non sia schiavo del potere è concesso di odiarlo tanto da annichilirlo”.
Scrivendo il saggio L’altro processo negli stessi giorni del maggio Francese, Canetti vede riprendere forma le medesime strutture dissociate di potere da lui descritte e analizzate nel monumentale Massa e potere, pubblicato nel 1960 dopo trentotto anni di studio e scrittura, e non può non rileggere il Sessantotto attraverso la doppia ottica delle sue analisi sul potere e i suoi rivolgimenti, e la prospettiva dell’innocente Kafka sempre in fuga di fronte agli arcana imperii e ai tribunali della Legge. “Il potere è tema suo quanto mio”, considera Canetti. “Ma, pur con tutto il meraviglioso timore reverenziale per la vita che lo caratterizza, Kafka è senza speranza perché legittima la morte, quella morte che io, da quando avevo sette anni e mio padre morì improvvisamente, non ho mai smesso di odiare con la stessa forza di allora. Per Kafka il padre fu sempre un’importantissima incarnazione del potere, di quel potere che non riuscì mai a sconfiggere in un attacco aperto, frontale. Quella stessa incarnazione del potere lo fu per me mia madre, ma durò solo pochi anni, e io riuscii a scamparla”. Anche questa è una differenza significativa tra Kafka e Canetti, nella vita non meno che nell’opera: Kafka non riuscì mai a scampare dallo sguardo severo e apprensivo della sua famiglia e, già moribondo a Berlino, finalmente lontano da casa in compagnia di Dora Diamant, poi costretto a riparare nel sanatorio di Kierling dove spirò, il massimo di affrancamento che riusciva ad ottenere era mandare ai genitori lettere in cui minimizzava la natura del suo male e sconsigliava di raggiungerlo al capezzale.
Come nel Cinquecento teologi e studiosi da Erasmo da Rotterdam in giù arrivavano a invocare Sancte Socrate, ora pro nobis, anche per Canetti Kafka è una sorta di santo laico della letteratura da invocare – “salvami, Kafka. Non vuoi salvarmi? Disprezzi il mio peso, la miavoluttà, la mia pancia?” – e da tenere al riparo da facili ma indebite interpretazioni religiose o messianiche – “nemmeno con il termine parabola riusciranno a uccidere Kafka”. Ripercorrendo gli appunti di Canetti su Kafka, emerge con forza l’idea di una letteratura come atto sacro, forse l’ultimo atto sacro rimasto agli uomini nel cuore della secolarizzazione novecentesca. “Anche per me scrivere è pregare, l’unica preghiera che conosco. Il mio Processo è con la morte e non è ancora giunto al termine. Per te questo conto si è pareggiato troppo presto”, scrive Canetti ancora una volta rivolgendosi all’Assente. L’adorazione di Canetti per Kafka non era però priva della capacità di riscontrare limiti e ambiguità: “ovunque, ovunque, persino in Kafka tracce di neoplatonismo”, si legge in un altro passaggio degli appunti dello scrittore austriaco; “a me però non piacciono i discorsi sulla prigione del corpo”. Il nesso tra scrittura e crudeltà, parallelo a quello girardiano tra violenza e sacro, che esplode nel massimo della sua forza nel racconto kafkiano Nella colonia penale, sembra essere invece un punto di fuga per Canetti, scrittore della mitezza e dei mille rivoli intellettuali. “Non sono più abbastanza crudele per scrivere. Non sono più uno scrittore”, si appunta quando ormai è in tarda età. Dopo la morte dell’amata Veza, Canetti si culla nel sogno kafkiano di scrivere un’opera che nessuno leggerà, e si intensifica il suo identificarsi con Kafka: “sono diventato una persona che vorrebbe nacondersi. Vorrei strisciare nella cenere [di Veza]. Solo nella sua cenere voglio scrivere, E con la sua cenere voglio scrivere”.
Se Adorno e Benjamin adoperavano Kafka, la sua narrativa e il suo immaginario concettuale e simbolico come un campo di prova per le loro idee sulla filosofia, sulla storia e sull’ebraismo, Canetti tenta un’operazione ancora più arrischiata: usa Kafka a mo’ di specchio, interrogandosi attraverso la vita e l’opera di Kafka sul rapporto tra la sua stessa vita e la sua opera pluriforme. Ne L’altro processo, la tesi essenziale di Canetti è che il fidanzamento di Kafka con Felice letterariamente è stato tramutato nel primo capitolo de Il processo, con l’arresto di Josef K.; ugualmente, la rottura del fidanzamento all’albergo Askanischer Hof di Berlino al cospetto della famiglia Bauer e dell’amica comune Grete Bloch, che Kafka stesso andò definendo il suo “tribunale”, si transustanzia nella fredda esecuzione di Josef K. al termine frammentario del romanzo incompiuto. Del resto, detto in una battuta che solo Canetti avrebbe potuto esprimere, “nella vita di Kafka ci sono stati tre fidanzamenti e tre romanzi incompiuti”. Negli appunti di Canetti si trova anche l’affasciante disamina e distinguo sugli scrittori che ebbero figli, come Dostoevskij, Tolstoj, Goethe e Joyce, e quelli che non ebbero figli, come Kafka, Musil, Baudelaire, Proust e l’amato Kraus. Canetti non si situa in nessuna delle due categorie, dal momento che non ebbe figli biologici ma adottò la figlia di un amico, Nina, dopo che la madre era morta e il padre si trovava in un contesto di instabilità economica e sociale. “Come credere che per trent’anni sono stato il contemporaneo di Pessoa? Ma non sono forse stato per diciannove anni contemporaneo di Kafka?”, è un altro degli interrogativi che attraversò la mente di Elias Canetti, a cui pure si deve una delle prose più vigorose di tutto il secolo breve. E ragionando sulla sua personale inquietudine nei confronti delle leggende tradizionali ebraiche, per le quali prima provò una repulsione, poi una profondissima attrazione, Canetti arriva a porsi la domanda delle domande: “fino a che punto amo in Kafka l’elemento ebraico, l’imbelle, me stesso?”.
Da questi tre confronti, verrebbe da dire corps à corps, con Kafka, né Walter Benjamin né Theodor Adorno né Elias Canetti escono vincitori, ma almeno, a differenza di Max Brod e di fin troppi epigoni della psicoanalisi o dello strutturalismo francese, non avevano la pretesa di comprendere Kafka tutto. Franz Kafka è un buco nero che risucchia chiunque provi davvero a interpretarlo, costringendolo a un infinito rimando di fonti, di controsensi, di riferimenti incrociati, con un livello di pluristratificazione che solo la Bibbia, il Talmud, la Qaballah e gli scritti apocrifi ed esoterici dei tre grandi monoteismi possono superare. Ma in fondo ciò che ha compiuto Kafka uomo e autore nei confronti della letteratura a lui coeva e successiva è proprio un atto di Cinosi: come il Dio gnostico crea il mondo per sottrazione, autoescludendosene, Kafka, cancellandosi, si universalizza ed eternizza, e diventa, a detta di tutti, la pietra d’inciampo della letteratura occidentale.
