PER IL QUARANTENNALE DI CRIMINI DI PACE

Era il 1975 quando Einaudi pubblicò, come n. 68 del Nuovo Politecnico, Crimini di pace. Ricerche sugli intellettuali e sui tecnici come addetti all’oppressione, a cura di Franco Basaglia e Franca Basaglia Ongaro.
Nel decennio 1971-1982 ho lavorato nell’ospedale psichiatrico “S. Maria Maddalena” di Aversa (Ce), dove uno dei due direttori, V. D. Catapano, ed un gruppo di giovani psichiatri e infermieri, si erano schierati a favore dell’antipsichiatria. Data la diffusa tendenza interna conservatrice, questo gruppo adottò la denominazione di “Rinnovamento Psichiatrico”, anziché affluire in “Psichiatria Democratica”. Crimini di pace fu il libro guida che ci aiutò, come singoli e come gruppo, a rompere alcuni schemi dalla routine custodialistica, l’inerzia delle istituzioni e gli atteggiamenti da “Mastu’ Giorgio”, diffusi nella classe infermieristico-psichiatrica napoletana.
Con la legge 180, Basaglia ha vinto la battaglia di chiusura dei manicomi. Ma quelle ricerche sugli intellettuali addetti all’oppressione sembrano aver subito una nemesi cosmica. Anche se la battaglia si è spostata di contesto. Dalla psichiatria all’economia e all’informazione.
A distanza di quarant’anni esatti, passato dalla riabilitazione ospedaliera dei mali psichici alla prevenzione degli stessi, attraverso la formazione delle giovani generazioni, mi chiedo cosa sia rimasto di quella vicenda eroica.
Di fronte al panorama del progressivo degrado delle relazioni sociali, grazie al
dilagare dei disvalori, dell’elevazione a categoria divina del profitto e del danaro, c’è da chiedersi, da dirigente di un Istituto di istruzione dello Stato, dove attingere l’energia quotidiana per guardare negli occhi i docenti di scuola pubblica, per sostenerli nel loro lavoro di formazione dei giovani.
Ancora di più, come guardare oggi negli occhi gli studenti, così affamati di futuro, di chiarezze, di motivazioni ai valori. Non vi possono essere più dubbi: mai come nel momento storico che stiamo attraversando la scuola pubblica è chiamata ad un’opera coraggiosa e generosa di demistificazione dei “crimini di pace” di basagliana memoria.
Franco Basaglia fu uno psichiatra che rifiutò la “delega del controllo”, della devianza e della sofferenza, che il potere costituito affidava tradizionalmente agli psichiatri e al loro luogo di culto, il manicomio. Adottando una chiave di critica sociale, tradizionalmente lontana dalla medicina e dalla psichiatria organicista, Basaglia dimostrò che il manicomio si era trasformato in una “istituzione totale”. Una istituzione, cioè, che aveva talmente snaturato la sua ragion d’essere, da ribaltarla nel suo opposto. Istituzione nata per curare, in realtà produceva malattia. Basaglia vinse la sua battaglia. I manicomi furono chiusi per legge.
Sicuramente c’è anche una vicenda di struttura scientifica per la psichiatria. Perché già Freud e Jung, insieme ad altri, si erano resi conto che per il sapere sulla psiche risultavano insufficienti le conoscenze puramente mediche ed organiciste. In tutta evidenza, l’oggetto d’indagine, la psiche, è un complesso di funzioni che, a differenza di quelle di altri organi, non è del tutto riducibile all’organo che, in prevalenza, la supporta. Per i fondatori della psicoanalisi, il sapere medico aveva bisogno di coniugarsi con le conoscenze filosofiche, sociologiche e delle scienze umane in generale. Freud riconobbe esplicitamente che la sua teoria della duplicità pulsionale, Eros e Thanatos, derivava da Empedocle. Per Jung, basterebbe una sbirciatina al recente Libro Rosso, per percepire i risvolti “filosofico-letterari”, artistici e storico-religiosi della sua concezione della mente umana. Del resto, la designazione di “cura dell’anima” è insita nell’etimo stesso di philo-sophia (philo = amicizia, amore, aver cura).
Tutta quella prima generazione di psicoanalisti concepì la scuola come il comparto della prevenzione psicologica. I fondatori analizzarono ampiamente la condizione dell’infanzia e le sue vicissitudini pedagogiche. Anna Freud fondò una scuola per l’infanzia a Londra. S. Spielrein una analoga a Mosca. Uno dei primi asili aziendali, promosso da Adriano Olivetti, fu affidato ad una psicoanalista junghiana, M. Loriga.
Guardando a quell’auspicio –di prevenzione delle patologie psichiche, e quindi di sostanziale liberazione, per le nuove generazioni- dalla posizione contemporanea, bisogna considerarlo come aspirazione idealizzata. Perché, nella concretezza della storia della scuola pubblica soprattutto in Italia, la battaglia, degli anni 60, 70 e 80 del Novecento, sia per la formazione psicologica degli insegnanti sia per la presenza di uno psicologo nell’organico di ogni scuola – come c’è da oltre cinquant’anni nei paesi di lingua anglosassone – è stata totalmente sconfitta. Grazie anche al mix di indifferenza, acquiescenza ed ostracismo delle baronie universitarie (baronie che considerano la scuola solo come terreno da colonizzare), di alcuni ordini professionali di medici e psicologi, sino a pezzi delle stesse società psicoanalitiche. Basterebbe seguire le vicende che hanno portato all’avvento dell’ordine professionale degli psicologi e alla parificazione statale, in forma di scuole di specializzazione, della formazione psicoanalitica. Questi stessi “pezzi” hanno sempre visto con diffidenza e ostracismo i colleghi che si occupavano di scuola. Considerando lo specifico pedagogico come distante dal metodo clinico psicoanalitico. In quanto “vera” metodologia di liberazione ed autonomia per l’individuo. Rimuovendo, in tutta evidenza, la provenienza di quest’ultimo, dalla radice psichiatrica come sistema di controllo.
A conferma, se ce ne fosse bisogno, dell’interesse che i “poteri forti” hanno sempre avuto nel manipolare la scuola pubblica, sin da molto prima dell’Unità d’Italia, per mantenerla in uno stato di minorità. Le “baby prostitute” di Roma non rappresentano forse un acting out di una condizione di minorità abusata, in quanto struttura interna sistemica dell’organismo della scuola pubblica, rispetto al rimanente tessuto sociale?
Un altro grande spirito del Novecento, A. Einstein, aveva visto più realisticamente le relazioni tra poteri forti e scuola. Il 30 luglio 1932, proprio rivolgendosi a Freud sulla questione della guerra, così si esprimeva:

«La sete di potere della classe dominante si oppone in ogni Stato a qualsiasi limitazione della sovranità nazionale. Questo smodato desiderio di potere politico viene sovente alimentato dalla brama di potere di un altro ceto sociale, che mira a conquistare vantaggi materiali, economici. Penso soprattutto al piccolo ma deciso gruppo di persone che, attive in ogni popolo, e inaccessibili a qualsivoglia considerazione o scrupolo sociale, vedono nella guerra, cioè nella fabbricazione e nel commercio delle armi, soltanto un’occasione per ottenere vantaggi personali e ampliare l’ambito del proprio potere.
Tuttavia l’aver riconosciuto questo dato inoppugnabile ci ha soltanto fatto fare il primo passo per capire come stiano oggi le cose. Ci troviamo subito di fronte a un’altra domanda: com’è possibile che la minoranza ora menzionata riesca ad asservire alle proprie cupidigie la massa del popolo, che da una guerra ha soltanto da soffrire e da perdere? (…) Una risposta ovvia a questa domanda sarebbe che questa minoranza di individui al potere ha in mano prima di tutto la scuola e la stampa, e perlopiù anche le organizzazioni religiose. Ciò le consente di dominare e orientare i sentimenti delle masse, rendendoli docili strumenti della propria politica».

Se, per citare un solo esempio, un giornalista liberale illuminato ci ha informato quattro anni fa, prendendo la notizia dal New York Times, che «i liberi mercati sono in realtà guidati da un vero e proprio comitato d’affari dotato di risorse pressoché illimitate e della potenza politica ed economica che ne deriva» (E. Scalfari, “Nove banche vogliono dividere l’euro in due” in la Repubblica, 19/12/2010), questo è un “crimine di pace”. Del quale, si spera, docenti e studenti della scuola pubblica, prendano coscienza, anziché rimuoverlo.
Una delle funzioni fondamentali della scuola pubblica deve ritornare ad essere quella di educare alla consapevolezza e non alla rimozione, alla negazione e allo scotoma cognitivo.
Se, come hanno detto in molti, “siamo in guerra”, qui non si tratta più solo di debito pubblico e di salvezza degli Stati. Il vero dilemma è tra civiltà o barbarie.
La scuola pubblica dovrebbe dissociarsi con disprezzo da un’Europa che ha affossando la Grecia, fons et origo della nostra civiltà.
La scuola pubblica è nata lì. Nell’Accademia di Platone e nel Liceo di Aristotele.
I popoli dell’America latina, a partire dall’Ecuador, hanno fornito una lezione di altissimo valore formativo per quest’Europa che sembra aver smarrito la propria missione storica.



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