Sull’importanza de Il capitale nel XXI secolo di Thomas Piketty

Recentemente è uscito anche in traduzione italiana il libro di Thomas Piketty Le Capital au XXIe siècle (2013). Nonostante l’estensione (976 pagine nell’edizione originale) il testo ha avuto una ricezione molto ampia, dapprima in Francia e poi, dopo la traduzione inglese, nel resto del mondo. Si tratta dunque, tecnicamente, di un ”best seller”, categoria che nella saggistica italiana è riservata di solito alle memorie pruriginose di rockstar in pensione o all’aneddotica retroscenista di qualche giornalista televisivo. Probabilmente, per seguire la tendenza del momento, il testo di Piketty troverà acquirenti anche in Italia, quantomeno per figurare nelle teche librarie di chi voglia aver fama di persona aggiornata. Che venga anche letto con pari diffusione mi permetto di dubitarne. E tuttavia, è un libro da leggere.

1. Un nuovo Marx? Che il libro di Piketty abbia avuto successo, e a maggior ragione che possa averne in Italia, risulta a chi scrive alquanto stupefacente. E il motivo dello stupore è semplice: si tratta davvero di un eccellente lavoro scientifico. Niente slogan facilmente spendibili, né tesi pseudo-radicali, né suggestioni evanescenti. A proposito di questo lavoro e del suo autore si è parlato di Piketty come di un “nuovo Marx”. Una simile valutazione è quanto di più fuorviante si possa immaginare. Piketty è (o quantomeno così risulta alla lettura) privo di una cultura filosofica significativa, così come di ogni esplicita mira politica; inoltre, il tasso di innovatività delle tesi che Piketty propone non è particolarmente elevato. Ben poco a che vedere, dunque, con la retorica fiammeggiante e l’esplosivo tasso di rinnovamento concettuale che fu degli scritti di Marx. Eppure, oltre al titolo, pensato naturalmente per evocare la grande opera incompiuta di Marx, un legame profondo con la tradizione che da Marx trae origine c’è: il libro di Piketty fornisce, alla fin fine, una sola argomentazione complessiva, un’argomentazione però insolitamente solida, che può essere usata (anche se l’autore non lo fa) per sostenere tesi almeno in parte simili a quelle marxiane. Proviamo a vedere più da vicino.

2. La rivincita dell’economia classica. Il primo elemento importante, che potrebbe apparire trascurabile a chi non conosca l’evoluzione della scienza economica nel XX secolo, sta nell’orgogliosa e riuscita riproposizione di una metodologia che è stata marginalizzata nei moderni dipartimenti di economia, e in particolare in quelli internazionalmente più rinomati: il testo di Piketty si colloca esplicitamente nella tradizione che oggi chiamiamo dell’economia “classica” (Adam Smith, James Mill, Ricardo, Marx, ecc.). L’evoluzione della cosiddetta economia “neoclassica”, sulla scorta della “rivoluzione marginalista” ha portato la scienza economica nel corso del ‘900 a mimare in sempre maggior misura gli stilemi delle scienze della natura, o meglio, di una scienza della natura idealizzata, dove la sfera dei fondamenti viene sbrigata con postulati o assiomi solo vagamente radicati nella realtà, e dove le virtù dello “scienziato economico” si giocano sul piano dell’eleganza dei teoremi e modelli matematici. Questo approccio alla scienza economica ha un doppio effetto collaterale, forse involontario, ma niente affatto neutrale sul piano dei contenuti. Esso da un lato è funzionale alla creazione di tecnici spendibili in applicazioni economiche astratte, settoriali e formali (dal commercialista al broker), dall’altro lato tale approccio sterilizza completamente la scienza economica rispetto alla sua dimensione storica (e dunque anche antropologica, filosofica e politica). Differentemente dall’economia classica, la scienza economica oggi più “trendy” (cioè più accademicamente accettabile) guarda con sospetto, se non con aperto disprezzo, alla sfera delle vicende storiche, cioè alla sfera della realtà sociale, dove gruppi di persone interagiscono operando scelte sulla base di una storia passata e in vista di una storia futura. Di tutto ciò nella costruzione dell’assiomatica e dei teoremi dell’economia neoclassica non c’è traccia, se non incidentale. Il lavoro di Piketty invece vuole inscriversi esplicitamente nella tradizione dell’economia politica classica ed effettivamente dà il meglio di sé nella documentazione ed analisi storica dei processi economici. Questo approccio stesso è un gesto teorico “radicale”, ed invero l’unico gesto di questa natura nel testo.

3. L’organizzazione del testo. Il testo è organizzato in quattro grandi sezioni, dedicate a definizioni concettuali di base, a determinare il rapporto capitale/reddito come strumento di analisi della storia economica, a illustrare gli andamenti dell’accumulo di capitale negli ultimi due secoli e mezzo, ed infine a suggerire correttivi ad alcune tendenze esiziali del processo economico. Va sottolineato, anche se non possiamo soffermarcisi, come il percorso svolto da Piketty sia ricco di discussioni di dettaglio riferite a svariate nozioni mainstream dell’economia contemporanea, con critiche ad idee diffuse, quali l’idea che i salari siano determinati dalla produttività marginale dei lavoratori, che capitale e lavoro abbiano complessivamente accesso a quantità relative costanti di risorse, che la globalizzazione sia una forza che spontaneamente tenda a ridurre le diseguaglianze internazionali, ecc. Le critiche in questione sono motivate analiticamente, ma ciò che maggiormente le qualifica è sempre il supporto storico-empirico. Uno degli espedienti espressivi più efficaci del testo è l’utilizzo commentato di note pagine di classici della letteratura che si sono confrontati con il ruolo del capitale nella società a loro contemporanea, da Honoré Balzac a Jane Austen: le riflessioni di Sense and Sensibility o Père Goriot illustrano in modo plastico ciò che gli andamenti statistici riportati da Piketty testimoniano quantitativamente.

4. La grande illusione. La tesi principale cui tutte le numerose tesi accessorie del testo afferiscono può essere riassunta nei seguenti passaggi:

a) L’analisi storica mostra innanzitutto come non vi siano all’opera nella storia processi deterministici relativi al rapporto tra capitale e lavoro, ovvero tra reddito da capitale e reddito da lavoro. Inoltre si mostra come non sussistano dinamiche strettamente economiche che spontaneamente correggerebbero il costituirsi di squilibri tra il potere del capitale e quello del lavoro.
b) Empiricamente rilevabile è tuttavia una chiara tendenza storica, tale per cui il tasso di ritorno del capitale è generalmente superiore al tasso di crescita dell’economia, e dunque al ritorno dei redditi da lavoro. In condizioni ordinarie il capitale riesce a generare più capitale per chi lo detiene di quanto reddito possa essere prodotto dal lavoro, per chi lo fornisce. Inoltre, tanto più grande il capitale già accumulato, tanto maggiore la rendita del capitale medesimo. Nessuna di queste tesi è di per sé nuova. Di nuovo c’è la forza con cui ora esse divengono sostenibili, forza supportata dall’alto livello della documentazione e dell’analisi.
c) L’insieme di queste tendenze presenta un quadro di facile interpretazione: in condizioni ordinarie di pace e prosperità il potere del capitale, dunque il potere del passato economico, dell’eredità e della proprietà consolidata, tende ad imporre in modo crescente il proprio governo sui processi economici e sulla società. Questa tesi ha un profilo esteriore che ricorda in maniera piuttosto impressionante la profezia marxiana sulla progressiva concentrazione del capitale di contro alla tendenziale pauperizzazione dei lavoratori. Tuttavia le premesse teoriche che conducono a questo esito sono diverse dalle premesse marxiane: ad essere decisiva non è più la tendenza a decrescere del tasso di profitto, storicamente confutata, ed il processo stesso non va concepito come deterministico, “fatale”.
d) Non essendo un processo deterministico, vi sono dunque condizioni che fanno eccezione. Proprio l’illustrazione di tali condizioni è il punto forse più qualificante dell’analisi di Piketty. Il processo cumulativo che fa divergere le posizioni sociali apicali rispetto alla maggioranza della popolazione mostra infatti una sola grande eccezione storica, eccezione esaminata guardando alla dinamica del periodo 1914-1975. Infatti l’unica vera inversione di tendenza che possiamo riscontrare si ha in concomitanza con la grande distruzione di capitali rappresentata dalle due Guerre Mondiali, e con il successivo trentennio (1945-1975) di alta crescita nelle aree coinvolte nella “grande ricostruzione”. Questo episodio storico, che pochi possono augurarsi divenga mai condizione “fisiologica” dell’economia e della società, si mostra essere però anche la fonte empirica da cui emergono tutte le tesi ottimistiche che dominano le più influenti visioni economiche contemporanee. È dalla dinamica americana ed europea di questo periodo che vengono tratti i vaticini circa la capacità spontanea dell’economia “libera” di redistribuire ricchezza e di progredire attraverso meccanismi di autoregolazione. È un grande merito del testo di Piketty mostrare la paradossalità di questa situazione: le tesi sul funzionamento ottimale di mercati pacifici e “perfetti” prevedono esiti economici che si attagliano empiricamente soltanto alla più grande distruzione bellica della storia e al più radicale tentativo degli stati di riappropriarsi delle leve dell’economia (come avvenuto dopo il 1945, anche sulla scorta dell’esperimento sovietico). Si potrebbe dire che la catastrofe profetizzata da Marx, che avrebbe dovuto portare in ultima istanza alla rivoluzione, appare “confutata” da una catastrofe differente, le Guerre Mondiali, che hanno allentato materialmente ed anche idealmente la morsa del grande capitale. Piketty mostra bene come la crescita che ci hanno insegnato a considerare fisiologica per un capitalismo ben funzionante (3-5%) sia un’eccezione storica, legata alla dinamica di una disparità tra frontiera tecnologica disponibile e suo potenziale di sfruttamento (per la “ricostruzione”). Nei paesi industrialmente avanzati, chi ritiene che gli andamenti di crescita 1945-1975 siano un andamento fisiologico, raggiungibile non appena le “riforme” saranno portate a compimento, sta (da trent’anni) correndo dietro ad un fantasma. E se, come taluni dicono, per ritornare a livelli di piena occupazione nelle presenti condizioni dobbiamo mirare a livelli di crescita normali del 3% e oltre, beh, la conclusione che ci si presenta davanti agli occhi è immediata: ciò semplicemente non accadrà, o comunque non in modo duraturo. Quali implicazioni trarne è naturalmente un problema politico di prima grandezza.

5. Rivoluzione o riforma? Il testo di Piketty, come dicevamo, è lontano dallo spirito rivoluzionario e profetico che fu di Marx. Piketty non demonizza l’accumulo di capitale di per sé, né i detentori di capitale, e non invoca alcuna palingenesi dell’uomo. Questo può essere un limite. Piketty è con tutta evidenza qualcuno che, per dirla con Leonard Cohen, predilige “to change the system from within”, correndo al caso il rischio di condannarsi/ci a “twenty years of boredom”. Egli non propone sistemi di relazioni sociali storicamente inauditi e utopici (come la società comunista) per superare lo status quo. Egli si limita, nel modo più sobrio possibile, a segnalare cosa è possibile fare per introdurre correttivi che evitino l’esplosione incontrollata del potere del capitale. E nel farlo segnala come non vi siano problemi tecnici di sorta per implementare tali soluzioni. Questo procedimento di basso profilo ha però un grande potenziale politico, ancorché inespresso. Così facendo si lascia nuda in tavola davanti al lettore una semplice verità: tutti i problemi cruciali relativi ai travagli dell’economia mondiale contemporanea sono di ordine politico, non economico. Piketty sostiene in modo convincente le ragioni di una tassa globale sul capitale, con particolare riferimento (diversamente da come oggi avviene) ai capitali mobili (finanziari). L’istituzione di una tale tassa non è qualcosa che possa avvenire d’un tratto. Si tratta di una direzione da perseguire, per stadi progressivi, una direzione però ben definita e capace di ottenere in tempi definiti quel tipo di correttivo stabile di cui le società di libero mercato hanno bisogno. A chi considera questa direzione utopistica si può ribattere che le alternative sono o ben più improbabili o decisamente catastrofiche. Piketty illustra quali passi intermedi siano indispensabili in questa direzione, passi che dovrebbero essere oggetto di pubblico dibattito, a partire dalla fondamentale richiesta di ottenere uno scambio automatico internazionale di informazioni bancarie, e dalla denuncia ed isolamento politico dei paesi che si prestino (in varia misura) al ruolo di “paradiso fiscale”. E ciò che impariamo da Piketty è innanzitutto come una simile richiesta sia davvero semplice da implementare una volta che l’opinione pubblica di agglomerati politici dotati di elevata massa economica (come la UE o gli USA) sollevassero tale richiesta. Al tempo stesso Piketty ci ricorda quanto scarsi siano stati i progressi in questa direzione e come l’Europa sia persino più arretrata degli USA nelle richieste di trasparenza bancaria.
In questo breve resoconto abbiamo naturalmente taciuto molti punti importanti, ma una conclusione d’insieme può comunque essere tratta lungo le seguenti linee. La lezione che il testo di Piketty ci lascia è semplice e fondamentale: per rendere i processi economici mondiali governabili non sono necessari rivolgimenti né cambiamenti di paradigma economico, e non vi sono arcane difficoltà tecniche o tecnologiche da superare; ciò che possiamo fare è semplice, così come sono semplici le richieste che l’opinione pubblica dei vari paesi può formulare ai propri governi. Se tali richieste, semplici, ragionevoli, e formulabili entro il paradigma economico dell’economia di mercato, dovessero incontrare muri di gomma o cortine fumogene (e solo un ingenuo potrebbe pensare di non trovare resistenze), ebbene, a questo punto, l’orizzonte successivo che si imporrebbe sarebbe tecnicamente un orizzonte “rivoluzionario”, giacché risulterebbe evidente che le forme attuali di esercizio del potere politico, ancorché nominalmente democratiche, sono incapaci di tutelare il dêmos rispetto all’interesse dei “pochi” (οἱ ὀλίγοι).

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