Nell’immediatezza delle reazioni agli attentati di Parigi, alla commozione è subentrata l’indignazione e poi la rabbia, con il ragionevole corollario del desiderio di una risposta all’altezza dell’aggressione. Questi impulsi hanno preso due principali direzioni, l’una interna e civile, legata al rapporto con le comunità islamiche risiedenti in Europa, una seconda esterna e militare, concernente l’atteggiamento da prendere nei confronti del cosiddetto ‘califfato’. È presto per dire dove queste spinte ci porteranno: nella storia eventi successivi possono modificare il senso di quelli precedenti, e dunque l’attuale quadro potrebbe facilmente radicalizzarsi o allentarsi. Ma allo stato è importante conservare una qualche lucidità, mirando ad ottenere una visione pragmaticamente spendibile. In questa sede vogliamo spendere qualche parola solo con riferimento al primo punto, riflettendo brevemente su alcuni degli aspetti posti dalla convivenza con le comunità islamiche residenti in Europa.
1. Una cautela preliminare. Sui media, in questi giorni, si è notata una curiosa reazione da parte di molti personaggi di spicco, prevalentemente intellettuali; tale reazione può essere riassunta in una frase: “È giunto il momento di rassegnarci alla limitazione di alcune delle nostre libertà, che in un momento di crisi come questo si presentano come privilegi non più sostenibili”. Il senso psicologico di questa posizione sembra abbastanza chiaro. Gli intellettuali sono associati normalmente alla richiesta di tutele di diritti e libertà. Rassegnandosi per primi alle loro limitazioni è come se sacrificassero sull’altare della Realpolitik il loro agnello più grasso. In verità, però, in assenza di precise specifiche, questa ‘disponibilità al sacrificio di diritti’, sembra un gesto di natura essenzialmente psicologica e apotropaica. Purtroppo qui non si tratta di sacrificare un diritto come se fosse un capretto, pregando nella successiva benevolenza degli dei. Che limitazioni a libertà e diritti possano essere necessari è altamente probabile, e in parte sta già accadendo, ma si tratta di capire esattamente e pragmaticamente quali diritti può, eventualmente, essere utile limitare, per quali scopi, con quali funzioni, per quanto tempo. In assenza di un dettaglio di queste ragioni, i margini di potenziali abusi sono evidenti e non andrebbero sottovalutati.
2. Corpi estranei? Per chi agita la bandiera di un rigetto aggressivo delle comunità islamiche residenti, la prima cosa da tenere presente è un sano dato di realtà. Può piacere o meno, ma in Europa ci sono oggi circa 16 milioni di islamici residenti, più o meno come la popolazione di Grecia e Austria messe insieme. Pensare di andare ad uno scontro frontale con gli islamici residenti in quanto islamici non è solo ingiusto, è soprattutto autolesionista: comporterebbe una spinta alla radicalizzazione in persone che altrimenti non ne avrebbero alcuna intenzione, e creerebbe un problema di dimensioni ingestibili, al livello di una guerra civile. In molti paesi, Francia in testa, il retaggio coloniale ha fatto sì che oggi siano islamici cittadini europei nati e cresciuti in Europa. Al frequentatore medio dello stadio, che brandeggia l’idea della cacciata degli islamici residenti, può essere utile ricordare, per dire, che l’ex capitano della nazionale francese di calcio, nonché Pallone d’Oro, Zinedìne Zidane era un islamico residente (e il suo nome, a ulteriore sfregio, significa ‘bellezza della religione’). Ergo, l’idea di poter eradicare gli islamici come un corpo estraneo dal corpo sano delle genti europee non è tanto una tesi illiberale o immorale, quanto più semplicemente una tesi irrealizzabile e dannosa.
3. Jihad. Il terrorismo islamico è parte del radicalismo jihadista, che rappresenta un piccolo sottoinsieme dell’islamismo salafita (conservatore e volto alla reistituzione della shari’a), che a sua volta è un sottoinsieme dell’Islam sunnita, che include circa il 90% del mondo islamico. Lo jihad è talora considerato all’interno della visione islamica come un sesto pilastro della fede, accanto ai cinque principali e universalmente accettati (l’accettazione senza remore di Dio, le preghiere rituali, la donazione obbligatoria o zakat, il digiuno del Ramadan e il pellegrinaggio alla Mecca). Tuttavia il senso di ‘jihad’ è molto più ambiguo di quanto ci si potrebbe aspettare. Lo jihad (letteralmente ‘lotta’ o ‘sforzo’) nella tradizione islamica indica innanzitutto la lotta interiore per migliorare nella fede e solo incidentalmente la lotta esteriore nei confronti degli Infedeli. Dal punto di vista dottrinale un’interpretazione dello jihad che possa essere compatibile con atti terroristici è estremamente minoritaria, praticamente trascurabile, e sarebbe sbagliato vedere in ciò una radice significativa del nesso tra islamismo e terrorismo.
4. L’Islam come problema. Ma se è una grossolana sciocchezza pensare che un musulmano in quanto tale debba essere, o sentirsi, complice di un terrorista, è anche un’illusione pensare che il terrorismo di cui ora piangiamo i morti non abbia niente a che fare con la religione e cultura islamica. Ma quale sia il nesso richiede un momento di riflessione.
L’Islam ha realmente alcuni tratti intrinseci che tendono a creare condizioni di attrito con le istituzioni occidentali. (Da qui in avanti, con ‘istituzioni’ intendo la totalità delle strutture e dei meccanismi che governano e preservano un determinato ordine sociale, non solo dunque quelle sancite da leggi positive). Questi tratti non sono necessariamente monopolio dell’Islam ed altre visioni religiose, tra cui tutte le religioni del Libro, presentano aspetti che sono stati, o possono essere, parimenti problematici. Tuttavia, nell’Occidente odierno, la posizione dell’Islam è peculiare.
Nell’Islam si combinano tre aspetti di fondo: un’eteronomia dominante, un rapporto diretto tra fedele e Dio, ed un’associazione con realtà storico-politiche ‘premoderne’. Quanto al primo aspetto, come la parola stessa Islam ( = sottomissione) ricorda, l’istanza di una radicale eteronomia, nella forma dell’assoluto affidamento alla volontà di Dio, così come espressa nel Corano e nella Sunna, è un punto portante della fede. L’assenza di dimensione critica è esperita come una dimensione virtuosa. Per contrasto, nell’ebraismo, ma anche nel cristianesimo, le attività ermeneutica ed esegetica hanno sempre rappresentato uno snodo fondamentale, nutrendo (con alterni successi) un atteggiamento se non critico, quantomeno dialettico. Nell’Islam il nesso diretto tra il fedele e la parola di Dio, così come depositata nel Corano, è inteso in senso particolarmente diretto. Questo rapporto diretto tra il fedele/sottomesso e la parola di Dio, non è mediata da un clero (con la parziale eccezione degli ayatollah sciiti). Ciò accentua il tenore non dialettico, e dunque non raziocinante, che caratterizza il rapporto del fedele islamico con la sua fede. Questi fattori tendono ad ancorare in modo particolarmente forte e immediato la fede islamica alle sue sorgenti (Corano e in subordine Sunna), ancorandola dunque ad una visione del mondo maturata tra il VII e il X secolo. Questo arcaismo presenta, proprio per il contrasto con la modernità occidentale, alcuni aspetti attraenti, come l’accentuato comunitarismo e l’appartenenza alla sfera antropologica delle economie di dono (zakat). A rinforzare questi tratti di arcaismo è, naturalmente, il fatto stesso che la fede islamica si sia storicamente associata con paesi che sono rimasti estranei alle ‘rivoluzioni’ che hanno dato forma alla cultura occidentale: la rivoluzione scientifica, la rivoluzione tecnologica, la rivoluzione industriale e le rivoluzioni politiche borghesi. Tutto ciò comporta l’assenza nella tradizione islamica di quella separazione tra autorità spirituale e potere politico che, non senza fatica, è maturata nel mondo occidentale. Al contrario, in una prospettiva islamica, il politico è concepito come legittimato a partire dallo spirituale.
Questi tratti di fondo fanno sì che la cultura islamica non abbia facilità a trovare una sintesi tra il proprio modo di intendere virtù e vizi e alcuni aspetti profondi delle istituzioni occidentali. La storia insegna che le sintesi culturali, anche le più improbabili, si producono continuamente e che spesso danno frutti particolarmente belli. Ma, posto che non c’è ragione per essere necessariamente pessimisti, è importante comprendere come nulla parli a favore di un’agevole e spontanea sintesi: se si desidera che una sintesi, un’armonizzazione, avvengano è necessario uno sforzo particolare da parte di tutti, in primis da parte degli islamici residenti in Occidente.
5. Un succedaneo del marxismo? Naturalmente la condizione di attrito che la fede islamica tende a creare con le istituzioni occidentali è ben lontana dall’essere sufficiente a generare pulsioni estremiste. Di per sé tutto ciò può limitarsi ad un disturbo quasi asintomatico. Ma è qui che interviene una micidiale interazione con problemi peculiari dell’Occidente, problemi che si manifestano nella forma di un contrasto tra elevate aspirazioni ufficiali e deludenti realtà. In politica interna, l’Occidente rivendica un’idea di egalitarismo, almeno quanto alle possibilità, ma il proprio sistema socioeconomico produce sacche di esclusione senza remissione, con cui tutti conviviamo, più o meno serenamente. In politica estera, l’Occidente brandisce e rivendica i valori democratici, salvo poi aggirarli in molti modi e con scuse fantasiose, ogni qual volta ciò risulti utile alle proprie mire di politica estera.
Di fronte a questi (ed altri) problemi, che appartengono all’organizzazione sociale e produttiva dell’Occidente, l’Occidente stesso ha prodotto molteplici istanze critiche e tentativi di soluzione, di cui il più influente e articolato è stato il marxismo. Ma il marxismo come forza sociale capillare è da tempo in ritirata, e il marxismo come teoria richiede, anche nelle sue forme più ingenue, una complessità di analisi spesso culturalmente inaccessibile alla gioventù delle periferie urbane. Ed è proprio qui, in mancanza di una visione che spieghi il contrasto tra elevate aspirazioni ufficiali e amare realtà, che l’Islam subentra, fornendo una prospettiva nel deserto, una chiave di lettura politica e di ispirazione esistenziale alternativa. L’arcaismo comunitarista islamico si presenta facilmente, in presenza di alti gradi di frustrazione e disillusione, come l’unica mappa alternativa, motivante e disponibile per orientarsi nel mondo. L’Islam fornisce, suo malgrado, una visione del mondo capace di rileggere le proprie frustrazioni (non sempre e non solo economiche) e di darvi un senso.
6. Le ‘radici’ dell’Occidente. Ammettere i problemi irrisolti dell’Occidente, tuttavia, non può portare in nessun modo all’idea che tra istituzioni occidentali e religione islamica si debba in qualche modo trovare una ‘sintesi’ nel senso di una sorta di ‘compromesso a metà strada’. Il sistema di leggi, diritti, pratiche, in generale istituzioni dell’Occidente non deve ‘fare compromessi’ con l’Islam, e questo, si noti, non per il carattere avventizio degli islamici residenti, che sarebbero ‘ospiti’ nei paesi occidentali e che dunque dovrebbero adeguarsi. Se questo soltanto fosse il punto, si tratterebbe di una semplice questione di forza e di numeri. Il problema invece è molto più radicale, e viene spesso frainteso.
Un contributo decisivo al fraintendimento lo danno i discorsi, frequenti quanto confusi, sulle ‘radici giudaico-cristiane dell’Occidente’, che da qualche tempo vengono sollevati in chiave di ‘resistenza antislamica’. Se questo fosse il terreno dello scontro (e dell’eventuale compromesso) ci troveremmo semplicemente di fronte all’ennesima riedizione storica di un conflitto tra religioni, conflitto che per sua essenza non lascia alcuno spazio alla mediazione razionale. La questione in campo è però del tutto diversa. L’Occidente si è sviluppato, tra le altre cose, attraverso una faticosa e plurisecolare risposta a conflittualità religiose e ai loro tratti di eteronomia ed irrazionalismo. La ricerca di criteri di razionalità obiettiva, la diffidenza nei confronti del dogma e del pregiudizio, la sospensione di giudizio davanti all’ignoto o all’incomprensibile sono tutti elementi che, dalla filosofia greca all’Illuminismo, hanno rappresentato la cellula generatrice del pensiero occidentale prima, e delle istituzioni occidentali poi. I tratti che caratterizzano in profondità le istituzioni e le pratiche sociali occidentali sono tratti che non hanno una matrice preferenzialmente ‘giudaico-cristiana’ più di quanto ne abbiano una islamica: si tratta di lineamenti che si appellano ad un’idea di ragione universalizzabile al di là delle credenze provinciali, delle fedi particolari, dei pregiudizi sedimentati. Questa dimensione, la cui matrice è filosofica-scientifica, non religiosa, è ciò che definisce gli aspetti strutturali del mondo occidentale: dalla democrazia, ai modi di produzione, all’egalitarismo di diritto, alle libertà individuali, ecc. Non è importante qui tesserne gli elogi o farne una disamina critica. Il punto importante da capire è che le istituzioni occidentali semplicemente non stanno sul medesimo piano di una fede religiosa.
La riflessione occidentale ha imparato, almeno al suo più alto livello, a riconoscere che la ragione ha limiti, taluni contingenti, talaltri essenziali. Riconoscere i propri limiti è parte essenziale della potenza e della dignità della ragione. Inoltre la ragione occidentale (e solo essa) ha imparato che molti dei limiti della ragione sono limiti mobili, che hanno una storia, e che possono essere superati nella storia. Questi tratti di fondo potranno apparire ai più culturalmente avvertiti come ovvi fino alla banalità, oltre che associati a visioni stucchevoli come il progressismo storico e il positivismo; tuttavia essi hanno anche una profondità che si staglia con chiarezza quando messa in contrasto con visioni del mondo come quella islamica. La ragione, sapendo di non essere il Tutto, può fare spazio per elementi che non può dominare, dunque per l’intuizione, l’affezione, la tradizione, ma questi spazi sono sorvegliati e gestiti dalla ragione stessa. La ragione può accomodare il diverso dalla ragione, mai abdicarvi. Le istituzioni occidentali, con tutti i limiti delle contingenze storiche e delle imperfezioni umane, sono nate cercando di incarnare quel modello di ragione.
In questo senso, le istituzioni occidentali non si confrontano con l’Islam su un piano di parità. Non c’è niente di simile ad una pari dignità con pari diritti e pari legittimità. Il rapporto è completamente asimmetrico e non può essere diversamente. Le istituzioni occidentali, tenendo ferma la lezione sui limiti della ragione umana, possono anche fare spazio per tradizioni, credenze ed intuizioni di cui non si ricerca o conosce giustificazione. Ma ciò può accadere solo nella cornice delle istituzioni e regole occidentali, senza toccarle. Non c’è qui nessuno spazio possibile per ‘compromessi’.
Questo naturalmente vale non solo per l’Islam, ma per ogni altro tipo di credenza o fede. Anche se dispiacerà a molti, l’essenza spirituale dell’Occidente (se ha senso parlare di qualcosa del genere) è un’essenza greco-illuminista, non giudeo-cristiana. Ciò significa che il medesimo rapporto di estraneità vige tra istituzioni occidentali e islamismo, così come tra istituzioni occidentali e cristianesimo o giudaismo. Tuttavia, con riferimento al cristianesimo, la plurisecolare contiguità di sviluppo ha fatto sì che molte istanze conflittuali siano state già affrontate e risolte: temi come la subordinazione delle donne, o i vincoli al pensiero e alla sua espressione sono stati momenti di scontro nel e col cristianesimo, ma oggi in Occidente non presentano più linee di contrasto, se non marginale. Nel caso dell’Islam invece questo processo di mediazione non ha avuto luogo e dunque il contrasto potenziale è molto più netto.
7. Conseguenze de jure. Ora, questa digressione ci dovrebbe permettere di vedere meglio quale sia l’ordine di conseguenze che è necessario trarre sul piano interno circa i rapporti tra istituzioni occidentali (incluse norme e diritti) e islamismo dei residenti.
In primo luogo, dal punto di vista dei cittadini europei non islamici è necessario tener fermo che la stigmatizzazione dell’islamismo in quanto tale è inaccettabile, nel caso lo si faccia nel nome di una religione autoctona, ed è comunque controproducente in ogni caso. Chi promuove a qualunque livello una campagna di stigmatizzazione nei confronti dell’Islam in quanto tale di fatto incentiva la radicalizzazione identitaria degli islamici residenti, ed in questo senso, involontariamente, ma oggettivamente, alimenta il terrorismo.
Almeno altrettanto importante è però comprendere che cosa si deve chiedere ai musulmani risiedenti nei paesi occidentali. Essi devono rinunciare nel modo più netto ad ogni dimensione politica del loro credo, laddove per politico si intende qui tutto ciò che ha dimensione normativa e pubblica. Ogni pretesa di tradurre valutazioni di ordine religioso in giudizi di ordine politico (in questo senso ampio) entra in conflitto frontale con l’essenza delle istituzioni occidentali. Una donna musulmana può ritenere privatamente che la propria subordinazione in quanto donna sia accettabile, o anche desiderabile. Ciò non tocca nessuna sfera normativa e pubblica. Ma se l’esigenza di una condizione subordinata delle donne diviene un’istanza pubblica, questo rappresenta una violazione che deve poter essere punita. Lo stesso deve avvenire per altri giudizi associabili con l’islamismo, come valutazioni di indole omofobica, o antisemita: esse devono divenire atteggiamenti ed espressioni per cui i margini di tolleranza devono rapidamente azzerarsi. Ogni volta che un giudizio di ordine religioso si traduce in giudizio normativo e pubblico avviene una violazione delle condizioni sotto cui un islamico residente in occidente è legittimato a vivervi. Naturalmente in questo novero ci possono essere valutazioni di peso maggiore e minore, e quali valutare come concretamente stigmatizzabili o punibili può essere questione di misura e buon senso. Ma dev’essere chiaro che, in linea di principio, ogni qual volta quel tipo di giudizi normativi e pubblici si verificano, siamo di fronte a violazioni che eccedono il principio di tolleranza. Tra queste violazioni, naturalmente, le più esplicite sono comportamenti come i tentativi di reclutamento jihadista e la propaganda radicale, ma il campo è propriamente delimitato da tutte le trasposizioni del religioso nel politico.
In concreto, su questa base si può e deve chiedere a ciascun musulmano residente in Occidente di contribuire all’isolamento e alla denuncia di ogni attività che possa, direttamente o indirettamente, nutrire le istanze del radicalismo islamico. Attorno ai pochi estremisti, magari pronti al martirio, esiste in ciascun paese occidentale un’area grigia di simpatizzanti non bellicosi e una seconda area di semplici tolleranti di quelle istanze. Queste persone, poche o tante che siano, rappresentano una rete di sicurezza necessaria ai più radicalizzati per potersi muovere liberamente, per avere basi logistiche, e occasionalmente per ottenere nuove adesioni militanti. Ora, è importante che tanto le comunità islamiche che le autorità politiche europee si rendano conto rapidamente che a questa situazione bisogna porre fine. Già in questo momento l’esistenza di quelle aree grigie, combinata con la crescita del senso di insicurezza, ha creato le premesse per una stigmatizzazione dell’Islam in quanto tale. Ce ne possiamo rammaricare, ma la percezione dell’Islam e degli islamici da parte del medio cittadino europeo è già oggi pesantemente compromessa: il sospetto, la diffidenza, la paura si sono oramai introdotte in misura estesa. In assenza di svolte, questa situazione è destinata a degenerare. In questo contesto è perciò giusto, opportuno ed utile che qualcosa di essenziale avvenga all’interno di tutte le comunità islamiche. Le manifestazioni di solidarietà sono una bella cosa, apprezzabile, ma dall’impatto abbastanza trascurabile. Ciò che deve avvenire, spontaneamente, se possibile, e con l’aiuto di norme ad hoc, se necessario, è una scelta di parte di tipo pratico da parte degli islamici residenti. Tutti e ciascuno i membri di queste comunità, a partire dai leader spirituali, sono chiamati non soltanto a prendere distanza dal terrorismo, ma soprattutto e concretamente, a fornire ogni forma di collaborazione possibile per l’isolamento e la rimozione di tutti i personaggi che presentano aspetti di radicalizzazione. E radicalizzazione in nuce qui è ogni politicizzazione del religioso. In concreto ciò significa che canali di delazione sistematica devono essere attivati e che ogni anche vaga contiguità deve venire sradicata. Inoltre, devono essere accolte e se possibile sollecitate dalle comunità stesse, tutte le forme possibili di sorveglianza su luoghi di ritrovo e preghiera.
Un cuneo deve essere inserito con decisione tra estremismo e islamismo, pena la riduzione nella percezione generale del secondo al primo. È auspicabile che ciò avvenga ovunque spontaneamente, ma è inevitabile che obblighi normativi accompagnino questo processo. Ogni forma di contiguità e supporto ad elementi radicali così come ogni mancata delazione di fatti pertinenti (come tentativi di reclutamento, ecc.) devono rappresentare fattispecie di reato penale.
Non c’è alcun dubbio che una tale focalizzazione di richieste sulle comunità islamiche residenti rappresenti una forzatura nella distribuzione equanime di diritti e doveri. Queste temporanee forzature, peraltro, si sono verificate più volte nella storia europea e italiana, in occasione della lotta al terrorismo di matrice politica o al crimine organizzato. Reati come il concorso esterno in associazione mafiosa presentano già tutti i tratti giuridici che possono essere utilizzati efficacemente in questo contesto. L’applicazione specifica di richieste e condizioni normative speciali alle comunità islamiche residenti rappresenta una forzatura in quanto prefigura un pregiudizio nei confronti di un certo ambiente culturale, visto come più prono di altri a certi tipi di reato. Purtroppo allo stato si tratta di un pregiudizio giustificato. Ci dobbiamo augurare tutti che questa forzatura sia provvisoria e di breve durata, ma nella presente realtà storica e nell’ambito delle limitazioni di diritti possibili, essa è la più modesta delle limitazioni efficaci.