Modernità e politica

 

Percorsi di riflessione su processi storici e interpretazioni sociologiche

 

Costituisce certamente una assunzione piuttosto diffusa che l’idea di modernità sorge come dimensione storico-cronologica utilizzata per descrivere una determinata fase evolutiva della civiltà umana, in particolare europea e occidentale. Questa fase viene solitamente collocata a partire da una serie di eventi-processi, che hanno avuto luogo in Europa dal XVI e XVII secolo: le scoperte geografiche, le guerre di religione e la Riforma protestante, la formazione degli Stati nazione, lo sviluppo del metodo scientifico, l’insorgere del sistema economico di tipo capitalistico. Questi eventi-processi istituiscono una condizione di discontinuità rispetto alla tradizione, determinando trasformazioni nella società a vari livelli. In primo luogo, da un punto di vista epistemologico, essi inducono la relativizzazione della conoscenza e il pluralismo dei valori. Inoltre, a partire da queste trasformazioni, si determina un aumento del livello della complessità sociale e della interazione tra i soggetti, che sono molto più coinvolti, rispetto al passato, nelle vicende del mondo e le cui relazioni divengono sempre più mediate da nuovi elementi istituzionali (quali lo Stato moderno e i suoi vari apparati amministrativi e burocratici, l’economia di mercato) e simbolici (i nuovi valori di riferimento, l’accresciuta capacità di riflessione delle coscienze).

Comunque, la modernità non è solo una mera successione di tali eventi, per quanto rilevanti. Essa, infatti, è configurabile anche come una particolare esperienza umana in cui si attua una nuova condizione della politica. Marshall Berman, che ha argomentato la concezione della modernità come esperienza, la qualifica, assai indicativamente, come il «trovarsi in un ambiente che ci promette avventura, potere, gioia, crescita, trasformazione di noi stessi e del mondo; e che, al contempo, minaccia di distruggere tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che conosciamo, tutto ciò che siamo»(cfr. Berman, M., L’esperienza della modernità, Il Mulino, Bologna 1985, p. 2).

Così, si può affermare che la modernità appare come immagine liberatrice e, come effetto della accresciuta e diffusa capacità rappresentativa e immaginativa ad essa associata, si assiste a due fenomeni politici senza precedenti, ossia alla progressiva secolarizzazione della società e a una biforcazione del pensiero politico attorno a due concetti: contratto sociale e diritto naturale(si veda Touraine, A., Critica della modernità, Il saggiatore, Milano 1993), che riflettono due distinte filosofie politiche. La prima ritiene necessario affermare l’idea di ragion di Stato e liberare lo Stato da ogni vincolo con la Chiesa: diventa così centrale l’autorità assoluta dello Stato, sia esso autoritario o popolare, fondato su un contratto, su una volontà generale o su una sollevazione rivoluzionaria di un popolo. Il secondo tipo di filosofia politica si fonda, invece, sull’idea di contratto privato e del diritto naturale e sarà questa la linea di pensiero politico che, più tardi, condurrà alla formulazione dei così detti diritti umani(per una mappatura complessiva delle dottrine politiche della modernità si può utilmente suggerire la lettura di Andreatta, A.-Baldini, A.E.(a cura di), Il pensiero politico. Idee, teorie dottrine. Vol. 2: L’età moderna, UTET, Torino 1999).

Tuttavia, nel XVI e XVII secolo, tutti questi elementi di innovazione tendono ancora a convivere con residui dell’ordine tradizionale e premoderno. A partire dal XVIII secolo si entra, invece, in una fase di consolidamento delle categorie moderne, in conseguenza degli effetti di importanti rivoluzioni, come quella industriale, come quelle socio-politiche (francese e americana) e di movimenti culturali come l’Illuminismo e, successivamente, il Positivismo. È questo il momento in cui si affermano i caratteri della divisione del lavoro, della democrazia rappresentativa, dello Stato di diritto, della scienza come istituzione. Ma è nella prima metà del XX secolo, che il rapporto tra modernità e politica raggiunge il suo culmine. Georg Simmel, riflettendo sulla modernità nel Novecento, affermava, emblematicamente, che la vita urbana determinata dalla metropoli aveva “trasformato la lotta per la natura in lotta per l’uomo” (cfr. Simmel, G., La metropoli e la vita dello spirito, in Id., Ventura e sventura della modernità. Antologia degli scritti sociologici, a cura di P. Alfierj e E. Rutigliano, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 424).In generale, da questo momento, la sfera politica delle società occidentali sarà fortemente scossa dai fenomeni del totalitarismo, dalle crisi economico-finanziarie, e dalle aporie della crisidella razionalità.

Sulla base di tali congiunture, negli ultimi decenni del Novecento, con conseguenze che si spingono sino ai giorni attuali, il rapporto tra modernità e politica viene a essere declinato attraverso l’idea della postmodernità. Questo termine viene enfatizzato, come è noto,dal filosofo francese Jean Francois Lyotard, allorché egli si sofferma a considerare lacondizione del sapere, così come questo si è evoluto dopo le varie fasi dicrisi acuta che la modernità consolidata aveva conosciuto. In questa fase, l’acquisizione del sapere tende a scindersi dalla formazione dello spirito e della personalità: il sapere diventa merce di scambio(si veda  Lyotard, J.F., La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1981, specialmente pp. 9-16). La questione del sapere diventa una questione di legittimazione del sapere, assumendo una connotazione politica. Si determina, infatti, un’equazione tra ricchezza, efficienza e verità e diventa centrale il discorso sulla “performatività”: esiste un solo gioco credibile, quello della potenza. Di qui le concezioni di fine della storia, fine delle ideologie, fine della filosofia, fine della democrazia.

Parallelamente a questa condizione, assistiamo al fenomeno della globalizzazione, che  appare come il processo che determina l’estensione su scala planetaria delle istituzioni fondamentali della modernità, individuabili nel capitalismo, nel controllo dell’informazione e della supervisione sociale. È, probabilmente, proprio all’interno di questa relazione reciproca tra modernità e globalizzazione, che si è venuta determinando, o quantomeno accentuando notevolmente, la concezione per cui le fasi della seconda modernità o postmoderne sono viste in termini di frammentazione e disgregazione socio-politica. Tale concezione della modernità si ritrova, a vario titolo, in studiosi come Niklas Luhmann, Anthony Giddens, Zygmunt Bauman, Ulrich Beck e, appunto, Jean Francois Lyotard, nel momento in cui essi considerano dimensioni come spazio, tempo, cultura, istituzioni.

In parte differente sarà, invece, l’interpretazione del rapporto tra modernità e politica fornita da un sociologo come  Habermas, persuaso che  la modernità sia un progetto per la società che non si è ancora compiuto(si veda, indicativamente, Habermas, J. Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Roma-Bari 2003), contrapponendosi così alla prospettiva di Lyotard. Qualsiasi cosa che, per Habermas, potrebbe equivalere alla conservazione di un approccio teorico, per Lyotard, equivarrebbe a una “metanarrazione”. Schematicamente, si può sostenere che Lyotard abbandona la politica progressista al fine di evitare la filosofia universalistica e Habermas si indirizza a una filosofia universalistica per poter dare un sostegno alla politica progressista. In questo dibattito, pur potendosi concordare con Lyotard sul fatto che non sono più necessarie, a questo stadio storico della società occidentale, forme di “metanarrazioni”, non si può eludere, seguendo Habermas, il fatto che abbiamo bisogno di meno aridità e del senso di identificazione con una comunità. Habermas è convinto che l’insieme degli elementi moderni tipici, quali razionalità, universalismo, democrazia, diritti umani devono ancora trovare la piena realizzazione. E, quindi, le aporie dell’ordine sociale che, da Lyotard a Bauman, vengono ricondotte alle categorie moderne sono, secondo il sociologo tedesco, comunque affrontabili solo rimanendo all’interno dell’ottica moderna stessa: sono le stesse categorie moderne opportunamente ripensate, o meglio compiutamente pensate, che possono risolvere le aporie di cui sono ritenute la causa.

Non è ovviamente possibile, in questa sede, sostanzialmente sintetica e illustrativa, e tesa ad intenti evocativi, stabilire in modo univoco quale di queste interpretazioni sia più corretta; più che altro, si può osservare come appunto le modalità con cui si considera la modernità non possono essere slegate dalle prospettive politiche in cui esse si collocano. In tal senso, un presupposto importante, quando si studiano questi aspetti così problematici, è proprio quello di riuscire sempre a contestualizzare concetti e teorie e comprendere e riconoscere, in che misura, giudizi e valori sulla modernità e sulla politica, che sosteniamo, si collegano a prospettive e scenari particolari. Altrimenti, il rischio può essere quello di continuare a produrre ideologie del rapporto tra modernità e politica, che possono avere un valore al più funzionale e strumentale a seconda di eventuali finalità socio-culturali, ma che non possono garantirci una autentica forma di conoscenza, di riflessione, di coscienza su questioni come la concezione dello Stato, i possibili paradossi del costituzionalismo democratico, la formazione di un sistema politico mondiale, le evoluzioni dell’opinione pubblica, l’amministrazione del diritto.



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