Per un’Europa della solidarietà

 

 

 

 

Negli ultimi anni, le voci che annunciano la crisi della democrazia sono divenute sempre più numerose. Qualche anno fa ciò sarebbe stato impensabile. Il problema, almeno per alcuni governi democratici, era semmai quello di esportare la democrazia per togliere di mezzo dittature e dittatori scomodi e inaffidabili. Oggi invece gli allarmi sul suo cattivo stato di salute si moltiplicano: svuotamento del ruolo dei Parlamenti a favore degli esecutivi, deresponsabilizzazione degli eletti nei confronti degli elettori, impoverimento della discussione interna i partiti, soffocata dai proclami del leader di turno. Allarmi ai quali andrebbe aggiunta l’evidente e crescente inadeguatezza delle arene politiche nazionali ad affrontare problemi che trascendono le capacità di intervento dei singoli Stati nazionali. Anche la denuncia dei populismi non rappresenta un’alternativa a queste dinamiche – e anzi, la volontà dei populisti di “restituire lo scettro al principe” finisce per scambiare il contenitore, lo Stato costituzionale e rappresentativo, con il contenuto, una politica al servizio delle élites economiche, mediatiche, e finanziarie.

La necessità di riportare nuovamente sotto controllo democratico processi decisionali resisi sempre più autonomi rispetto ai loro destinatari non può evitare di affrontare quello che, in questo momento, appare come un problema ineludibile per chiunque intenda riflettere sulle prospettive della politica democratica, ossia gli sviluppi futuri dell’Unione europea. Sviluppi che non possono prescindere dalla risorsa che più di ogni altra è stata messa a repentaglio dalle politiche perseguite, a tutti i livelli, negli ultimi anni: quella solidarietà sociale che, conservata nelle strutture giuridiche, appare sempre più bisognosa di rigenerazione. Certo, non manca chi ritiene che le pratiche simboliche e materiali che assicurano la “solidarietà” siano tipiche del movimento operaio e del socialismo e che rappresenterebbero perciò solo una componente, e forse neppure la più importante, della democrazia. Eppure la solidarietà ha fatto parte anche della dottrina sociale cattolica, che è stata alla base di partiti politici come la Democrazia cristiana in Italia, o dei partiti cristiano-sociali, che hanno impostato la questione sociale a partire dalle basi etiche del cristianesimo. E inoltre la solidarietà – il principio tradizionalmente più trascurato della triade rivoluzionaria – è radicata nelle ideologie di molti altri movimenti e partiti democratici in ragione della sua complementarità con i principi morali della giustizia, dignità dell’uomo, autorealizzazione e autonomia. È naturalmente possibile creare nuove istituzioni o sostenere la democrazia parlamentare nella sua forma attuale, ma, se il deficit di solidarietà continua a crescere, è facile prevedere che per la democrazia si annuncino tempi bui. Senza una politica solidaristica capace di ricostruire un tessuto sociale sempre più lacerato, la partita – per la democrazia – appare persa in partenza.

Gli attacchi alle forze di una solidarietà sociale in via di deperimento e più che mai bisognose di protezione provengono da più fronti. Anzitutto, dalla destra radicale, impegnata a coltivare l’odio e la paura nei confronti di stranieri, minoranze e gruppi vulnerabili. I rifugiati provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente vengono accusati di incrementare il tasso di criminalità o di abusare, in quanto richiedenti asilo, dei diritti sociali. I migranti provenienti dall’Europa orientale e centrale vengono attaccati perché “rubano” il lavoro ai nativi, si adattano a mercati del lavoro che richiedono una manodopera irregolare e priva di tutele e determinano una corsa al ribasso dei salari. E in tutta Europa, minoranze etniche, religiose e sessuali sono il bersaglio di una ostilità crescente, plasmata da un frame discorsivo che serve a instillare paure e insicurezze nel popolo del rancore. La solidarietà viene sostituita dall’esclusione etnica e nazionalistica, che provoca la rottura delle relazioni di reciprocità e di solidarietà che assicurano la tenuta dei legami sociali.

In secondo luogo, fenomeni come il lavoro precario, l’ascensore sociale bloccato, la necessità di fronteggiare esperienze come la disoccupazione o l’insicurezza economica si diffondono ovunque. I più colpiti sono coloro che hanno avuto accesso ai gradi più elevati dell’istruzione, hanno investito nella formazione professionale e che vedono nella modalità di organizzazione e gestione del lavoro basata sulla flessibilità una minaccia per le proprie aspettative di sicurezza e di status. Si tratta di fenomeni provocati e acuiti dalla natura mutevole dell’innovazione, che da un lato aumenta la produttività e dall’altro accentua le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza. In che modo è ancora possibile tenere in piedi i legami sociali se i ricchi eludono o evadono le tasse grazie a legislazioni fiscali compiacenti mentre i poveri vivono i drammi della non autosufficienza e della povertà minorile e generazionale? Non a caso, è dato quasi ovunque di assistere a una regressione della partecipazione politica e alla crescita dell’astensionismo elettorale, poiché i cittadini vedono costantemente aggirato il gioco di forze che caratterizza la democrazia. Dal momento che si sentono privati della possibilità che le situazioni d’interesse controverse possano essere assunte dalle istanze politiche competenti, praticano lo “sciopero del voto”, con il risultato di essere sottorappresentati nelle sedi istituzionali preposte alle scelte politiche. La desolidarizzazione delle società contribuisce così alla desolidarizzazione delle politiche democratiche.

In terzo luogo, le molteplici crisi da cui è investita l’Unione europea – dalla crisi economica e finanziaria, all’emergenza dei migranti, al terrorismo, all’uscita della Gran Bretagna dall’Unione – sembrano testimoniare dell’incapacità di rispondere alle sfide che si trova a dover fronteggiare e di rispondere ai nemici che l’assediano, i quali ritengono che il trasferimento di competenze al livello europeo sia la causa di tutti i mali e che la soluzione vada individuata nella riappropriazione da parte degli Stati della loro piena sovranità.

È per questo che oggi solidarietà e nuove forme di cooperazione sono più mai necessarie se si vuole che l’Unione europea, colpita da una perdita di credibilità delle istituzioni che affonda le sue radici in sistemi sociali sempre più disuguali e asimmetrici, riconverta il progetto elitario che ha presieduto alla sua costruzione in una modalità politica più prossima ai cittadini. In gioco non vi è soltanto una questione di solidarietà intergovernativa tra gli Stati membri, ma anche di solidarietà transnazionale tra i cittadini dell’Unione. Tra poco, alle elezioni europee voteranno per la prima volta i giovani che non conoscono un’Unione europea diversa da quella che garantisce la libertà di movimento da uno Stato all’altro e che si serve dell’euro quale moneta comune. Sono esperienze come queste, viaggiare in Europa senza doversi preoccupare dei controlli frontalieri o dei tassi di cambio e usufruire della possibilità di studiare e lavorare in un altro paese, a rappresentare un concreto presupposto della solidarietà transnazionale.

La solidarietà non è solo un meccanismo redistributivo circoscritto al perimetro dello Stato nazionale. È anche un concetto sociale, culturale e politico. È una visione fondata su cooperazione, contribuzione sociale, generatività, che si realizza attraverso percorsi partecipativi che restituiscono senso e appartenenza all’azione comune. Dipende da aspetti culturali perché, accanto al denaro e al potere amministrativo, è una delle fonti che assicurano la capacità socio-integrativa delle società contemporanee. Ma presenta anche diretti risvolti politici, perché richiamarsi alle fonti della solidarietà significa mettere in discussione le relazioni di potere e interrogarsi sulle forme con cui è possibile tutelare la vulnerabile integrità dei soggetti minacciati. La politica democratica non può sottrarsi alla solidarietà come “sentiment républicain”, il solo che può dare all’Europa radici profonde e contrastare efficacemente i processi di desolidarizzazione che ne stanno minando le fondamenta. Ma come?

Per esempio, implementando le politiche redistributive a livello europeo attraverso finanziamenti erogati dalle istituzioni politiche europee. Non è possibile anche solo correggere le diseguaglianze crescenti se non attraverso una politica di completamento dell’Unione nel senso di una democrazia sovranazionale, la sola in grado di definire la piattaforma istituzionale capace di modificare e sostituire la giustizia di mercato con la giustizia sociale. Un sistema europeo di assicurazione contro la disoccupazione potrebbe essere un meccanismo in grado di redistribuire le risorse e di incidere positivamente sulle condizioni di esistenza dei cittadini europei. L’Unione europea potrà stabilizzarsi a lungo termine soltanto dando corpo a una solidarietà sovra- o postnazionale quale antidoto alla frammentazione sociale. Non certo nella forma del “conservatorismo compassionevole”, della carità o della beneficenza, prospettive estranee al linguaggio della dignità e dei diritti, ma nell’orizzonte del riconoscimento istituzionale della solidarietà quale principio e riferimento necessario dell’agire pubblico e privato.



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