Claude Eatherly, pilota e meteorologo, era un ragazzo texano di 27 anni quando ordinò lo sgancio della prima bomba atomica della storia, Little Boy, che colpì Hiroshima il 6 agosto 1945.
Dopo l’operazione, Eatherley lasciò l’esercito e rifiutò qualsiasi riconoscimento al valore da parte degli Stati Uniti. Compì anche maldestre rapine e altri piccoli crimini, con la speranza di trovare sollievo nel biasimo collettivo. Ma ciò non bastò a placare i suoi dilanianti sensi di colpa ed Eatherly venne internato in un ospedale psichiatrico.
Fu in questo periodo che iniziò un carteggio con Günther Anders, sfociato nel libro L’ultima vittima di Hiroshima. Il carteggio con Claude Eatherly, il pilota della bomba atomica (a cura di Micaela Latini, Mimesis Edizioni, 256 pag., 20 €, 2016) un commovente scambio epistolare tra Anders e un’anima persa in cerca di un’espiazione tanto impossibile quanto necessaria. Su Scenari pubblichiamo alcuni brani della corrispondenza.
Lettera 1 a Claude Eatherly
Al signor Claude R. Eatherly, ex maggiore della A.F., Veterans’ Administration Hospital Waco, Texas
3 giugno 1959
Caro signor Eatherly,
Lei non conosce chi scrive queste righe. Mentre Lei è noto a noi, ai miei amici e a me. Il modo in cui Lei verrà (o non verrà) a capo della Sua sventura, è seguito da tutti noi (che si viva a New York, a Tokyo o a Vienna) con il cuore in sospeso. E non per curiosità, o perché il Suo caso ci interessi dal punto di vista medico o psicologico. Non siamo medici né psicologi. Ma perché ci sforziamo, con ansia e sollecitudine, di venire a capo dei problemi morali che, oggi, si pongono di fronte a tutti noi.
La tecnicizzazione dell’esistenza: il fatto che, indirettamente e senza saperlo, come le rotelle di una macchina, possiamo essere inseriti in azioni di cui non prevediamo gli effetti, e che, se ne prevedessimo gli effetti, non potremmo approvare – questo fatto ha trasformato la situazione morale di tutti noi. La tecnica ha fatto sì che si possa diventare “incolpevolmente colpevoli”, in un modo che era ancora ignoto al mondo tecnicamente meno avanzato dei nostri padri.
Lei capisce il suo rapporto con tutto questo: poiché Lei è uno dei primi che si è invischiato in questa colpa di nuovo tipo, una colpa in cui potrebbe incorrere – oggi o domani – ciascuno di noi. A Lei è capitato ciò che potrebbe capitare domani a noi tutti. È per questo che Lei ha per noi la funzione di un esempio tipico: la funzione di un precursore.
Probabilmente tutto questo non Le piace. Vuole stare tranquillo, your life is your business. Possiamo assicurarLe che l’indiscrezione piace così poco a noi come a Lei, e La preghiamo di scusarci. Ma in questo caso, per la ragione che ho appena detto, l’indiscrezione è – purtroppo – inevitabile, anzi doverosa. La Sua vita è diventata anche il nostro business. Poiché il caso (o comunque vogliamo chiamare il fatto innegabile) ha voluto fare di Lei, il privato cittadino Claude Eatherly, un simbolo del futuro, Lei non ha più diritto di protestare per la nostra indiscrezione. Che proprio Lei, e non un altro dei due o tre miliardi di Suoi contemporanei, sia stato condannato a questa funzione di simbolo, non è colpa Sua, ed è certamente spaventoso. Ma così è, ormai.
E tuttavia non creda di essere il solo condannato in questo modo. Poiché tutti noi dobbiamo vivere in quest’epoca, in cui potremmo incorrere in una colpa del genere: e come Lei non ha scelto la sua triste funzione, così anche noi non abbiamo scelto quest’epoca infausta.
In questo senso siamo quindi, come direste voi americani, in the same boat, nella stessa barca, anzi siamo i figli di una stessa famiglia. E questa comunità, questa parentela, determina il nostro rapporto verso di Lei. Se ci occupiamo delle Sue sofferenze, lo facciamo come fratelli, come se Lei fosse un fratello a cui è capitata la disgrazia di fare realmente ciò che ciascuno di noi potrebbe essere costretto a fare domani; come fratelli che sperano di poter evitare quella sciagura, come Lei oggi spera, tremendamente invano, di averla potuta evitare allora. Ma allora ciò non era possibile: il meccanismo dei comandi funzionò perfettamente, e Lei era ancora giovane e senza discernimento. Dunque lo ha fatto. Ma poiché lo ha fatto, noi possiamo apprendere da Lei, e solo da Lei, che sarebbe di noi se fossimo stati al Suo posto, che sarebbe di noi se fossimo al Suo posto. Vede che Lei ci è estremamente prezioso, anzi indispensabile. Lei è, in qualche modo, il nostro maestro.
Naturalmente Lei rifiuterà questo titolo.
“Tutt’altro – dirà – poiché io non riesco a venire a capo del mio stato”.
Si stupirà, ma è proprio questo non a far pencolare (per noi) la bilancia. Ad essere, anzi, perfino consolante. Capisco che questa affermazione deve suonare, sulle prime, assurda. Perciò qualche parola di spiegazione.
Non dico “consolante per Lei”. Non ho nessuna intenzione di volerLa consolare. Chi vuol consolare dice, infatti, sempre: “La cosa non è poi così grave”; cerca, insomma, di impicciolire l’accaduto (dolore o colpa) o di farlo sparire con le parole. È proprio quello che cercano di fare, per esempio, i Suoi medici.
Non è difficile scoprire perché agiscano così. In fin dei conti sono impiegati di un ospedale militare, cui non si addice la condanna morale di un’azione bellica unanimemente approvata, anzi lodata; a cui, anzi, non deve neppure venire in mente la possibilità di questa condanna; e che perciò devono difendere in ogni caso l’irreprensibilità di un’azione che Lei sente, a ragione, come una colpa. Ecco perché i Suoi medici affermano: “Hiroshima in itself is not enough to explain your behaviour”, ciò che in un linguaggio meno lambiccato significa: “Hiroshima è meno terribile di quanto sembra”; ecco perché si limitano a criticare, invece dell’azione stessa (o dello “stato del mondo” che l’ha resa possibile), la Sua reazione a essa; ecco perché devono chiamare il Suo dolore e la Sua attesa di un castigo una “malattia” (classical guilt complex); ed ecco perché devono considerare e trattare la Sua azione come un self-imagined wrong, un delitto inventato da Lei.
C’è da stupirsi che uomini costretti dal loro conformismo e dalla loro schiavitù morale a sostenere l’irreprensibilità della Sua azione, e a considerare quindi patologico il Suo stato di coscienza, che uomini che muovono da premesse così bugiarde ottengano dalle loro cure risultati così poco brillanti? Posso immaginare (e La prego di correggermi se sbaglio) con quanta incredulità e diffidenza, con quanta repulsione Lei consideri quegli uomini, che prendono sul serio solo la Sua reazione, e non la Sua azione. Hiroshima – self-imagined!
Non c’è dubbio: Lei la sa più lunga di loro. Non è senza ragione che le grida dei feriti assordano i Suoi giorni, che le ombre dei morti affollano i Suoi sogni. Lei sa che l’accaduto è accaduto veramente, e non è un’immaginazione. Lei non si lascia illudere da costoro. E nemmeno noi ci lasciamo illudere. Nemmeno noi sappiamo che farci di queste “consolazioni”.
No, io dicevo per noi. Per noi il fatto che Lei non riesce a “venire a capo” dell’accaduto, è consolante. E questo perché ci mostra che Lei cerca di far fronte, a posteriori, all’effetto (che allora non poteva concepire) della Sua azione; e perché questo tentativo, anche se dovesse fallire, prova che Lei ha potuto tener viva la Sua coscienza, anche dopo essere stato inserito come una rotella in un meccanismo tecnico e adoperato in esso con successo. E serbando viva la Sua coscienza ha mostrato che questo è possibile, e che dev’essere possibile anche per noi. E sapere questo (e noi lo sappiamo grazie a Lei) è, per noi, consolante.
“Anche se dovesse fallire”, ho detto.
Ma il Suo tentativo deve necessariamente fallire. E precisamente per questo.
Già quando si è fatto torto a una persona singola (e non parlo di uccidere), anche se l’azione si lascia abbracciare in tutti i suoi effetti, è tutt’altro che semplice “venirne a capo”. Ma qui si tratta di ben altro. Lei ha la sventura di aver lasciato dietro di sé duecentomila morti. E come sarebbe possibile realizzare un dolore che abbracci 200.000 vite umane? Come sarebbe possibile pentirsi di 200.000 vittime? Non solo Lei non lo può, non solo noi non lo possiamo: non è possibile per nessuno. Per quanti sforzi disperati si facciano, dolore e pentimento restano inadeguati.
L’inutilità dei Suoi sforzi non è quindi colpa Sua, Eatherly: ma è una conseguenza di ciò che ho definito prima come la novità decisiva della nostra situazione; del fatto, cioè, che siamo in grado di produrre più di quanto siamo in grado di immaginare; e che gli effetti provocati dagli attrezzi che costruiamo sono così enormi che non siamo più attrezzati per concepirli.
Al di là, cioè, di ciò che possiamo dominare interiormente, e di cui possiamo “venire a capo”. Non si faccia rimproveri per il fallimento del Suo tentativo di pentirsi. Ci mancherebbe altro! Il pentimento non può riuscire. Ma il fallimento stesso dei Suoi sforzi è la Sua esperienza e passione di ogni giorno; poiché al di fuori di questa esperienza non c’è nulla che possa sostituire il pentimento, e che possa impedirci di commettere di nuovo azioni così tremende. Che, di fronte a questo fallimento, la Sua reazione sia caotica e disordinata, è quindi perfettamente naturale. Anzi, oserei dire che è un segno della Sua salute morale. Poiché la Sua reazione attesta la vitalità della Sua coscienza.
Il metodo usuale per venire a capo di cose troppo grandi è una semplice manovra di occultamento: si continua a vivere come se niente fosse; si cancella l’accaduto dalla lavagna della vita, si fa come se la colpa troppo grave non fosse nemmeno una colpa. Vale a dire che, per venirne a capo, si rinuncia affatto a venirne a capo. Come fa il Suo compagno e compatriota Joe Stiborik, ex radarista sull’Enola Gay, che Le presentano volentieri ad esempio perché continua a vivere magnificamente e ha dichiarato, con la miglior cera di questo mondo, che “è stata solo una bomba un po’ più grossa delle altre”.
E questo metodo è esemplificato, meglio ancora, dal presidente che ha dato il “via” a Lei come Lei lo ha dato al pilota dell’apparecchio bombardiere; e che quindi, a ben vedere, si trova nella Sua stessa situazione, se non in una situazione ancora peggiore. Ma egli ha omesso di fare ciò che Lei ha fatto. Tant’è che alcuni anni fa, rovesciando ingenuamente ogni morale (non so se sia venuto a saperlo), ha dichiarato, in un’intervista destinata al pubblico, di non sentire i minimi pangs of conscience, che sarebbe una prova lampante della sua innocenza; e quando poco fa, in occasione del suo settantacinquesimo compleanno, ha tirato le somme della sua vita, ha citato, come sola mancanza degna di rimorso, il fatto di essersi sposato dopo i trenta. Mi pare difficile che Lei possa invidiare questo clean sheet.
Ma sono certo che non accetterebbe mai, da un criminale comune, come una prova d’innocenza, la dichiarazione di non provare il minimo rimorso. Non è un personaggio ridicolo, un uomo che fugge così davanti a se stesso? Lei non ha agito così, Eatherly; Lei non è un personaggio ridicolo. Lei fa, pur senza riuscirci, quanto è umanamente possibile: cerca di continuare a vivere come la stessa persona che ha compiuto l’azione. Ed è questo che ci consola. Anche se Lei, proprio perché è rimasto identico con la Sua azione, si è trasformato in seguito a essa.
Capisce che alludo alle Sue violazioni di domicilio, falsi e non so quali altri reati che ha commesso. E al fatto che è o passa per demoralizzato e depresso. Non pensi che io sia un anarchico e favorevole ai falsi e alle rapine, o che dia scarso peso a queste cose. Ma nel Suo caso questi reati non sono affatto “comuni”: sono gesti di disperazione.
Poiché essere colpevole come Lei lo è ed essere esaltati, proprio per la propria colpa, come “eroi sorridenti”, dev’essere una condizione intollerabile per un uomo onesto; per porre termine alla quale si può anche commettere qualche scorrettezza. Poiché l’enormità che pesava e pesa su di Lei non era capita, non poteva essere capita e non poteva essere fatta capire nel mondo a cui Lei appartiene, Lei doveva cercare di parlare e agire nel linguaggio intelligibile costì, nel piccolo linguaggio della petty o della big larceny, nei termini della società stessa, così Lei ha cercato di provare la Sua colpa con atti che fossero riconosciuti come reati.
Ma anche questo non Le è riuscito. È sempre condannato a passare per malato, anziché per colpevole. E proprio per questo, perché – per così dire – non Le si concede la Sua colpa, Lei è e rimane un uomo infelice.
E ora, per finire, un suggerimento.
L’anno scorso ho visitato Hiroshima; e ho parlato con quelli che sono rimasti vivi dopo il Suo passaggio. Si rassicuri: non c’è nessuno di quegli uomini che voglia perseguitare una vite nell’ingranaggio di una macchina militare (ciò che Lei era, quando, a ventisei anni, eseguì la Sua “missione”); non c’è nessuno che La odi.
Ma ora Lei ha mostrato che, anche dopo essere stato adoperato come una vite, è rimasto, a differenza degli altri, un uomo; o di esserlo ridiventato. Ed ecco la mia proposta, su cui Lei avrà modo di riflettere.
Il prossimo 6 agosto la popolazione di Hiroshima celebrerà, come tutti gli anni, il giorno in cui “è avvenuto”. A quegli uomini Lei potrebbe inviare un messaggio, che dovrebbe giungere per il giorno della celebrazione. Se Lei dicesse da uomo a quegli uomini: “Allora non sapevo quel che facevo; ma ora lo so. E so che una cosa simile non dovrà più accadere; e che nessuno può chiedere a un altro di compierla”; e: “La vostra lotta contro il ripetersi di un’azione simile è anche la mia lotta, e il vostro no more Hiroshima è anche il mio no more Hiroshima“, o qualcosa di simile può essere certo che con questo messaggio farebbe una gioia immensa ai sopravvissuti di Hiroshima e che sarebbe considerato da quegli uomini come un amico, come uno di loro. E che ciò accadrebbe a ragione, poiché anche Lei, Eatherly, è una vittima di Hiroshima. E ciò sarebbe forse anche per Lei, se non una consolazione, almeno una gioia.
Con il sentimento che provo per ognuna di quelle vittime, La saluto
Günther Anders
Lettera 2 a Günther Anders
12 giugno 1959
Dear Sir,
molte grazie della Sua lettera, che ho ricevuto venerdì della scorsa settimana.
Dopo aver letto più volte la Sua lettera, ho deciso di scriverLe, e di entrare eventualmente in corrispondenza con Lei, per discutere di quelle cose che entrambi, credo, comprendiamo. Io ricevo molte lettere, ma alla maggior parte non posso nemmeno rispondere. Mentre di fronte alla Sua lettera mi sono sentito costretto a rispondere e a farLe conoscere il mio atteggiamento verso le cose del mondo attuale.
Durante tutto il corso della mia vita adulta sono sempre stato vivamente interessato al problema del modo di agire e di comportarsi. Pur non essendo, spero, un fanatico in nessun senso, né dal punto di vista religioso né da quello politico, sono tuttavia convinto, da qualche tempo, che la crisi in cui siamo tutti implicati esige un riesame approfondito di tutto il nostro schema di valori e di obbligazioni.
In passato, ci sono state epoche in cui era possibile cavarsela senza porsi troppi problemi sulle proprie abitudini di pensiero e di condotta. Ma oggi è relativamente chiaro che la nostra epoca non è di quelle. Credo, anzi, che ci avviciniamo rapidamente a una situazione in cui saremo costretti a riesaminare la nostra disposizione a lasciare la responsabilità dei nostri pensieri e delle nostre azioni a istituzioni sociali (come partiti politici, sindacati, chiesa o stato). Nessuna di queste istituzioni è oggi in grado di impartire consigli morali infallibili, e perciò bisogna mettere in discussione la loro pretesa di impartirli.
L’esperienza che ho fatto personalmente deve essere studiata da questo punto di vista, se il suo vero significato deve diventare comprensibile a tutti e dovunque, e non solo a me.
Se Lei ha l’impressione che questo concetto sia importante e più o meno conforme al Suo stesso pensiero, Le proporrei di cercare insieme di chiarire questo nesso di problemi, in un carteggio che potrebbe anche durare a lungo.
Ho l’impressione che Lei mi capisca come nessun altro, salvo forse il mio medico e amico.
Le mie azioni antisociali sono state catastrofiche per la mia vita privata, ma credo che, sforzandomi, riuscirò a mettere in luce i miei veri motivi, le mie convinzioni e la mia filosofia.
Günther, mi fa piacere di scriverLe. Forse potremo stabilire, con il nostro carteggio, un’amicizia fondata sulla fiducia e sulla comprensione. Non abbia scrupoli a scrivere sui problemi di situazione e di condotta a cui ci troviamo di fronte. E allora Le esporrò le mie opinioni.
RingraziandoLa ancora della Sua lettera, resto il Suo
Claude Eatherly
Lettera 5 a Günther Anders
senza data
Caro amico,
dal momento in cui ho ricevuto il Suo plico con il Codice morale, il suo contenuto e la sua verità mi sono sempre stati presenti. La Sua profonda sincerità e il Suo modo di esprimersi mi hanno riempito di fiducia: confido nei Suoi sforzi di rendere questo mondo sicuro e pacifico.
Ah, se Lei ed io, e le migliaia di pacifisti in tutto il mondo, potessimo assicurarci la collaborazione di un gruppo di persone (gli scienziati), e se potessimo indurli a sacrificare il loro primo amore (la scienza), ad arrendersi alla propria coscienza e a unirsi a noi, sospendendo il loro lavoro alle armi atomiche finché un’internazionale di giuristi non abbia instaurato un governo mondiale, dove non potrebbero esservi organizzazioni politiche né forze militari dotate di poteri eccessivi.
Solo gli scienziati possono rovesciare questi gruppi rifiutando la propria collaborazione. Senza le forze della scienza le forze politiche e militari deperirebbero e morirebbero.
Ho parlato davanti a molti gruppi pacifisti in parecchi Stati, a proposito della necessità di sospendere il riarmo atomico, gli esperimenti e l’accumulazione delle bombe. Sono apparso ripetutamente alla televisione insieme a personalità religiose. Non sono desiderato nelle nostre scuole e nelle nostre università.
Solo il mese scorso il generale Twining, capo di stato maggiore della nostra aviazione, ha cercato di farmi trasferire all’ospedale Walter Reed a Washington, con la scusa di farmi avere un trattamento migliore. Il mio dottore si è opposto a questo trasferimento. Egli sapeva quanto me che la sola preoccupazione del generale Twining era di impedire che si facesse altra pubblicità al mio caso e al mio problema. Poiché è una pessima pubblicità per le forze armate. Sarebbero felicissimi di potermi tappare la bocca. Grazie a Dio il mio dottore ha fiducia in me e mi permette di lavorare e di mettere per iscritto le mie idee qui in ospedale.
Le rivolgerei volentieri alcune domande. Possiamo avere fiducia nei fisici nucleari? Pensa che sarebbero disposti a sospendere il loro lavoro e a paralizzare così le organizzazioni militari e politiche? Sarebbero disposti a rinunciare al loro “primo amore”, a tutti gli aiuti finanziari, a tutti i laboratori e i sussidi governativi, e ad esigere che la loro invenzione sia affidata a un custode sicuro? Se fossero capaci di questo, potremmo stare tranquilli.
Attendo con impazienza le Sue lettere, e ringrazio Sua moglie per la traduzione. Spero di poter lasciare l’ospedale a settembre. Potrei anche andar via la settimana prossima, poiché il mio periodo di degenza (tre mesi) scade, ma il mio dottore mi ha pregato di restare ancora per qualche tempo. Faccio sempre quello che mi chiede, sono sotto le sue cure da dieci anni.
Spero che potrà prendere le Sue ferie. Sarò onorato di ricevere una lettera da Lei in quei giorni preziosi. Posso chiederLe una copia firmata del Suo diario di viaggio in Giappone?
Arrivederci per ora.
Il Suo amico
Claude R. Eatherly
Lettera 6 a Claude R. Eatherly
22 luglio 1959
Caro Claude Eatherly,
la Sua lettera ci ha messo dieci giorni per raggiungermi quassù nelle Alpi. No, non è certo il caso di temere che possa guastarmi le vacanze scrivendo a Lei. Anzi, sapere di avere lontano un amico che cerca di raggiungere a suo modo, e con tanta serietà, la stessa meta a cui tendo anch’io, è una cosa che consola; e intrattenermi con Lei non è un lavoro, perché so che tra Lei e me non vi sono ostacoli che debbano essere rimossi.
Mi chiede se i fisici avranno la forza morale di rinunciare al loro “primo amore”. È difficile rispondere a questa domanda. Alcuni di loro sarebbero certamente capaci di farlo – il numero dei fisici di cui Pauling è riuscito a ridestare la coscienza è incoraggiante – ma bisogna sempre attendersi che altri non saranno in grado o non vorranno rendersi conto della portata degli effetti della loro attività. Va da sé che bisogna assolutamente raggiungere il maggior numero possibile di scienziati. Io, ad esempio, sono a contatto con alcuni dei “gottinghesi” (i diciotto fisici tedeschi che hanno avuto il coraggio di informare il pubblico delle conseguenze del riarmo atomico, a costo di rendersi sgraditi ad Adenauer). D’altra parte non basta limitarsi a influenzare questo gruppo professionale. Anche gli scienziati sono “persone”, e per lo più di statura morale non superiore alla media: persone che sono circondate, portate, incoraggiate o intimidite dall’opinione pubblica. Perciò è altrettanto urgente, se non addirittura più urgente, cambiare tutta l’atmosfera, la mentalità generale, l’opinione pubblica in cui e in mezzo alla quale vivono gli scienziati. Questo nuovo atteggiamento, che noi (Lei come me) cerchiamo di produrre, deve diventare così generale e diffuso che i fisici che seguiteranno a lavorare allo sfruttamento militare di progetti atomici finiscano per sentirsi circondati da un mondo ostile, da un mondo che li considera come nemici, dispregiatori di ogni valore e distruttori potenziali dell’umanità.
L’ampiezza del fronte è uno dei compiti più importanti. Ammetterà che nella maggior parte dei casi in cui gli uomini rinunciano a fare ciò che potrebbero fare da un punto di vista puramente fisico (ad esempio, ammazzare un vicino insopportabile), la ragione del loro comportamento morale, o almeno non criminale, non è nel loro amore per la felicità o inviolabilità del prossimo, ma nella loro paura di violare un tabù universalmente accettato e di essere messi al bando della comunità.
Poiché abbiamo a che fare con uomini reali e non con personaggi ideali, è nostro compito produrre una situazione in cui anche uomini privi di zelo morale e di immaginazione agiscano esattamente come agirebbero per ragioni morali o per amore dell’umanità e di tutti gli esseri viventi.
L’ampiezza del fronte: a questo punto interviene Lei. Poiché Lei si trova (e sono certo che non scambierà per cinismo quello che dico) nella fortunata situazione di poter dare al nostro fronte un’ampiezza che non potrebbe mai acquistare senza di Lei. Non dubito che Lei sia dei nostri: grazie a Lei, quindi, il nostro fronte si estende dall’”agente” fino alla vittima; e Lei ha compiuto anche il passo ulteriore di dichiarare apertamente e senza timori la Sua posizione. Perciò ho l’impressione che il suggerimento con cui chiudevo la mia prima lettera (di inviare un messaggio alle vittime di Hiroshima) sia perfettamente in linea con le Sue speranze e con le Sue azioni. Va da sé che non posso giudicare la Sua situazione di qui.
Può darsi che insuperabili difficoltà tecniche Le impediscano di mettere in pratica quel suggerimento; e quanto mi scrive a proposito di coloro che cercano di tapparLe la bocca e di fare di Lei un prigioniero trattato con riguardi intollerabili, non fa che confermare i miei sospetti. Sono lieto di sapere che può avere fiducia in un medico ragionevole e comprensivo (dev’essere veramente amico Suo), in un uomo abbastanza energico e coraggioso da saper resistere a quelle autorità e da salvaguardare e garantire la Sua libertà. La prego di fargli sapere quanto lo rispetti.
Ora penso che ciò che cerco di fare per Lei corrisponda a ciò che cerca di fare il Suo medico. Se i potenti Le creano delle difficoltà, creda pure che i potenti non sono onnipotenti, che si può sempre trovare una scappatoia; e oggi, purtroppo, viviamo in un’epoca in cui le scappatoie sono moralmente necessarie. Ciò significa, applicato al caso nostro, che se dovesse essere personalmente impedito di mandare il telegramma alle vittime (al sindaco di Hiroshima) – ciò che naturalmente produrrebbe il massimo effetto – c’è sempre, come seconda via, la possibilità che lo faccia io a Suo nome.
Lei sa, ovviamente, che non farei mai nulla dietro le Sue spalle. Perciò Le domando anche per questo la Sua autorizzazione.
Credo che il testo più breve e più giusto per un telegramma del genere potrebbe essere questo: “Il vostro no more Hiroshima è anche il mio no more Hiroshima. Claude Eatherly, uno dei piloti di Hiroshima”.
Se non potesse spedire di persona questo telegramma in Giappone, ma desiderasse che lo faccia io a Suo nome, basta che Lei mi mandi un telegramma con la sola parola “OK”.
Il Suo amico
Günther Anders
Lettera 7 a Günther Anders
12 agosto 1959
Caro signor Anders,
il “nostro” messaggio alla gente di Hiroshima ha cominciato a dare i suoi frutti. Le unisco due lettere che Le mostreranno all’incirca qual è il loro pensiero. La prego di rimandarmele quando non ne avrà più bisogno.
Oggi il mio medico mi ha detto che, secondo lui, potrei essere rilasciato il mese prossimo. Le mie lettere mi saranno rispedite a Box 187, Van Alstyne, Texas. La Bob Hope Productions mi ha chiesto di firmare un contratto per un film sulla mia vita. Lo farò, se mi garantiranno di riprodurre le mie idee e di non deformare la mia posizione verso i problemi che si ricollegano strettamente ai problemi mondiali e che ci preoccupano tanto entrambi. Ora ho bisogno del Suo aiuto per schizzare rapidamente un tema o un programma che possa servire ai produttori per comunicare le nostre idee e i nostri fini. Hanno intenzione di farmi fare un giro intorno al mondo insieme al film. Sarei felice se potesse venire con me. Ho l’impressione che potremmo fare moltissimo. La terrò informata prima di firmare un contratto.
Questa sarà una lettera molto breve, ma Le sarei molto grato di un Suo consiglio sulla questione del film e del libro.
Spero di avere presto la possibilità di venire in Europa. Forse l’anno prossimo. Aspetto con impazienza le Sue lettere.
Il Suo amico
Claude Eatherly
Lettera 8. Un gruppo di ragazze di Hiroshima, c/o Anden Yamanaka, 522 a Oyama Kita, Kita Machi, Minatoku, al maggiore Claude Eatherly, V.A. hospital, Waco, Texas
29 luglio 1959
Caro signore,
noi sottoscritte, ragazze di Hiroshima, Le inviamo i nostri saluti più cordiali.
Siamo un gruppo di ragazze che sono state così fortunate da sfuggire alla morte, ma che hanno subito lesioni al viso, agli arti o nel corpo in seguito alla bomba atomica che è stata lanciata su Hiroshima durante l’ultima guerra.
I nostri visi e le nostre membra recano le cicatrici o altri segni delle ferite, e vogliamo che quella cosa orribile che si chiama “guerra” non accada mai più, né per noi né per gli altri abitanti della terra.
Abbiamo appreso di recente che, dopo il fatto di Hiroshima, Lei è perseguitato da rimorsi, e che, in seguito a questo, è stato ricoverato in ospedale per una cura psichiatrica.
Le scriviamo questa lettera per esprimerLe la nostra sincera simpatia e per assicurarLe che non nutriamo alcun senso di ostilità verso di Lei. Forse Le avevano ordinato di fare ciò che ha fatto, o pensava di aiutare la gente ponendo fine alla guerra. Ma Lei sa che, su questa terra, le guerre non si finiscono con le bombe. Siamo state trattate con grande gentilezza dai Quaccheri in America. Abbiamo appreso a provare per Lei un sentimento di solidarietà, pensando che sia una vittima della guerra come noi.
Le auguriamo di riprendersi presto e completamente, e di unirsi a coloro che si dedicano alla buona opera di abolire la barbarie della guerra nello spirito della fratellanza.
Con i nostri saluti più fervidi