Oltre Zadig e Candido: tradizione moderna e senso dell’esistenza nel XXI secolo

Uno dei tratti fondamentali della coscienza umana risiede probabilmente nel fatto che essa si determina, tra l’altro, quando si pone il problema del senso dell’esistenza e di come essa possa essere spiegata e giustificata nelle sue spesso ambivalenti e controverse vicende. Così, spesso, nella storia della civiltà non sono mancati contributi di saggi che di volta in volta hanno provato ad affrontare questo dilemma fondamentale che segna la coscienza. In quest’ottica è necessario citare, facendo almeno qualche esempio indicativo per la cultura specificamente occidentale, Marco Aurelio nell’antichità, all’interno delle sue celebri meditazioni, mirate ad affermare stoicamente il primato della morale, della saggezza e del “fare” la verità (si veda Marco Aurelio, Colloqui con se stesso, Rizzoli, Milano, 1953), o Sant’Agostino nel Medioevo, all’interno delle sue note confessioni autobiografiche, volte a valorizzare l’umiltà e la fede (si veda Sant’Agostino da Ippona, Confessioni, Rizzoli, Milano, 1958). Ma è soprattutto nella modernità che il discorso sul senso dell’esistenza, compiendo un balzo sostanziale rispetto a quei canoni tanto insigni, diventa particolarmente complesso e, forse, se volessimo indicare tra i pensatori moderni quello che inizia a restituirci la cifra di questo problema nel modo più leggero e scorrevole, potremmo qui indicare Voltaire attraverso due suoi brevi romanzi Zadig ovvero il destino (Rizzoli, Milano, 1951) e Candido ovvero l’ottimismo (Rizzoli, Milano, 1952).

In effetti Voltaire ha scritto numerosi romanzi o racconti tutti in varia misura impregnati di spirito filosofico (ricordiamo qui Voltaire, La principessa di Babilonia, Rizzoli, Milano, 1956, Id., L’ingenuo e Così santa, Rizzoli, Milano, 1956, Id., L’uomo dai quaranta scudi, Rizzoli, Milano, 1958, Id., Il toro bianco – Le orecchie del conte di Chesterfield e il cappellano Goudman – Micromegas, Rizzoli, Milano, 1963, Id., Storia di Jenni e Il mondo come va, Rizzoli, Milano, 1963, Id., Il bianco e il nero e altri racconti, Rizzoli, Milano, 1965), in cui dietro il gusto della narrazione si trovano sempre spunti di riflessione articolata e sorprendente rispetto alle questioni etiche, politiche, sociali, istituzionali e storiche che agitavano i dibattitti della sua epoca e che allo stesso tempo li trascendevano. Zadig e Candido, tuttavia, tra le narrazioni di Voltaire, sono quelle che pongono il senso dell’esistenza nel modo forse più personale e specifico, presentandosi peraltro come due possibili declinazioni del problema, che assumono tagli interpretativi particolari. Se Zadig è un giovane uomo di Babilonia, ricco, pieno di virtù e qualità, “savio al massimo, perché cercava di vivere con i savi”(Id., Zadig ovvero il destino, cit.,  p. 11), che diventa vittima di una serie di disavventure, finché comprende che solamente sottostando ai decreti della Provvidenza si può essere felici, Candido è invece un giovane della Vestfalia, dal carattere ingenuo e sincero, cui  “si leggeva l’anima sul viso” (Id., Candido ovvero l’ottimismo, cit., p.11), che si trova ad affrontare in varie circostanze il peggio del mondo con lo sforzo disperato e patetico di inserirlo in una visione ottimistica.

 In entrambi i casi, le storie sono collocate in un contesto dinamico, per cui i protagonisti si trovano letteralmente a girare per il mondo attraverso mirabolanti avventure e conseguentemente a confrontarsi con situazioni, costumi e culture molto differenti, che appunto mostrano, nel modo più spettacolare, la pluridimensionalità del canone moderno. In entrambi i casi, ciò che accomuna i due protagonisti, due personalità molto lontane, una, Zadig, di origini orientali e di grande valore, l’altra, Candido, di origine centroeuropea e di indole semplice, è il fatto che i percorsi  dell’esistenza che incontrano appaiono fuggire ogni logica lineare e sono invece contraddittori e inaspettati, per cui o, come Zadig, si giunge, con ragionevolezza, a comprendere che le cose sottostanno a una Provvidenza che esula dal valore del singolo uomo, o, come Candido, si va avanti, appunto ingenuamente, ostentando comunque ottimismo sul senso degli eventi. Lungo le loro rispettive avventure, Zadig impara a comprendere l’errore degli uomini che “giudicano tutto senza conoscere nulla” (Id., Zadig ovvero il destino, cit., p. 68) e Candido si rende conto che “tutti gli eventi sono concatenati nel migliore dei mondi possibili” (Id., Candido ovvero l’ottimismo, cit., p. 100). Quello che sembra risultarne è una sostanziale ineffabilità del senso della vita e di quello che accade e che le cose vanno come vanno, per cui l’uomo in ogni caso rispetto ad esse si trova sempre sorpreso e il punto rimarchevole sta nella umiltà di riconoscere come l’uomo sia ignorante e inconsapevole di troppe cose e quindi non è mai opportuno lasciarsi andare a giudicare frettolosamente eventi e realtà, persone e situazioni: da queste storie, come in definitiva dagli altri numerosi racconti e romanzi di Voltaire, emerge uno scetticismo ultimo discendente dal dualismo panteistico tra il bene e il male, due principi opposti che finiscono col bilanciarsi (si veda Bianconi, P., Nota, in Voltaire, Il bianco e il nero e altri racconti, cit., specialmente p. 7).

L’insegnamento di Voltaire rifletteva i contesti di pensiero più illuminato del Settecento, un momento in cui l’accrescimento della consapevolezza e della conoscenza nella civiltà occidentale stava acquisendo progressiva importanza. Successivamente a quell’epoca, nel corso del Novecento e sino all’età attuale del XXI secolo come è noto, il progresso tecno-scientifico ha condotto l’uomo all’idea che la realtà possa essere dominata, determinando una sorta di hybris, di dismisura, e quindi anche a un canone di immodestia e arroganza. Si tratta di luoghi teorici che hanno conosciuto una specifica riflessione sociologica di grande rilevanza attraverso i contributi legati alla tradizione della teoria critica della Scuola di Francoforte (a partire innanzitutto dalla celebre lettura di Horkheimer, M., Adorno, T.W., Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1997) e poi anche attraverso gli studi sull’individualismo e sui processi di individualizzazione (emblematico Bauman, Z., La società individualizzata, Il Mulino, Bologna 2002). Nel XXI secolo, malgrado i moniti della sociologia critica nelle sue più svariate forme, purtroppo si deve rilevare una condizione lontana da dimensioni spirituali, in uno scenario arido prima ancora che secolarizzato, in un contesto in definitiva di cultura narcisista (si veda Lasch, C., La cultura del narcisismo, Bompiani, Milano 2001). E peraltro l’uomo tipico del mondo attuale pare in genere lontano sia dallo Zadig saggio e virtuoso sia dal Candido dall’animo puro e conciliante, essendo di frequente più che altro avventato, smaliziato e narcisista. Se ripensiamo dunque alla prospettiva di Voltaire sottesa in quei suoi romanzi, è interessante osservare che essa ha costituito una sorta di svolta cruciale, di turning point, anche in chiave politico-sociale, come è stato sottolineato da uno studioso come Eric Voegelin, all’interno delle sue ricerche volte a comprendere la storia delle idee politiche rispetto ai loro contesti più simbolici; in quest’ottica, Voltaire inaugura il tipo d’uomo che si trova all’apice di un’era che concepisce se stessa come il culmine dell’umanità, per cui egli riesce a vedere il male del mondo causato dall’oscurantismo (si veda Voegelin, E., Dall’illuminismo alla rivoluzione, Gangemi, Roma, 2005, specialmente pp. 57-58).

Ora, Voegelin, nella sua originale visuale sempre a cavallo tra filosofia della storia e scienza politica, ritiene quindi tutto sommato Voltaire iniziatore di una fase storico culturale che dall’Illuminismo perviene alle derive del super uomo creato dagli eccessi scientisti che prevalgono impropriamente sulle dimensioni del “bios theoretikos” e della vita dello spirito, poiché con il filosofo francese comincia il tentativo di evocare un’immagine dell’uomo nel cosmo sotto la guida della “ragione intramondana”, che scruta l’orizzonte dell’umanità non soltanto dal punto di vista storico e geografico, ma possiede anche sorprendenti e solide conoscenze di fisica, filosofia, affari pubblici e persino questioni religiose: la ragione di Voltaire, avverte lucidamente Voegelin, non è un’idea filosofica come quella di Kant, ma è un complesso di sentimenti e conoscenze raccolti da fonti molto differenti determinati sostanzialmente dall’identificazione di una visione razionale del mondo con la filosofia di Newton(si veda ivi, soprattutto p. 58). Malgrado ciò, malgrado questa interpretazione possibile e problematica avanzata da Voegelin, che peraltro assume come riferimento maggiore il Dizionario filosofico (si veda Voltaire, Dizionario filosofico, Rizzoli, Milano, 1966), opera che in effetti si caratterizza “nel continuo martellare  contro la mentalità corrente, contro qualsiasi forma di accettazione supina della realtà”(Lo Re, R., Nota, in Voltaire, Dizionario filosofico, cit, p. 14), l’insegnamento etico, sociale e politico dei romanzi di Voltaire e in particolare di Zadig e Candido resta meno invadente rispetto a quello proposto da altri pensatori che, sul senso della esistenza e della conoscenza, si sono susseguiti nelle stagioni dell’Illuminismo e del Positivismo, sino a Marx e all’età contemporanea: il punto è che la prospettiva generale di Voltaire ha determinato un fraintendimento di fondo per tutta la civiltà occidentale, avendola portata a credere che la ragione potesse porsi come forza morale, quando in effetti non era che un metodo amministrativo. Ma, come è stato osservato contestualizzando il punto di vista di Voltaire in relazione con le evoluzioni più attuali della società contemporanea, bisogna essere attenti a comprendere che Voltaire non voleva che le elites dovessero essere incarnate da uomini rinascimentali perfetti, ma che c’era bisogno di un sapere generale e forse, in secondo luogo, di conoscenze specifiche più approfondite: su questa base, era poi necessario interessarsi alle idee e alle creazioni dell’epoca; occorreva leggere, pensare, porsi domande, discutere in cerchie non ristrette, ben al di là di ogni competenza specifica, era cioè necessario guardare alla società come un tutto vivente e organico(si veda Saul, J. R., I figli di Voltaire, in Id., I bastardi di Voltaire. La dittatura della Ragione in Occidente, Bompiani, Milano, 1994, specialmente p. 115).

 Voltaire, e questo non va dimenticato, è anche un letterato e ha una leggerezza nei suoi romanzi che conferisce al suo pensiero una brillantezza e una arguzia particolare tra gli illuministi. E dunque, oggi, con gli occhi degli abitanti del mondo attuale, dobbiamo riconoscere che Zadig e Candido sono letture che pur appartenendo a quella modernità in cui già si insinuano coni d’ombra e ambivalenze, sono anche propri di quella modernità che non è ancora “cerebrale” o anche vagamente ossessiva come già in un certo Illuminismo e più ancora nel Positivismo e sino ai giorni nostri. Oltre al piacere che davano e danno al lettore, quelle storie dissolvevano la dominante argomentazione intellettuale a favore della passività nei confronti dei sistemi costituti.

Per tale ragione di fondo, lasciarsi accompagnare dai romanzi di Voltaire oggi nel XXI secolo resta prima di tutto una esperienza intellettuale “giocosa” e sorprendente, gustosa e divertente, e forse, pur restando valide le interpretazioni di Voegelin, per le derive della razionalità, pare comunque lecito ritenere che molti pensatori successivi a Voltaire avranno responsabilità certamente e intrinsecamente maggiori, poiché la narrativa del filosofo francese non serviva tanto a dare risposte intellettuali o vincere discussioni, ma a consentire ai lettori di comprendere istintivamente che quegli argomenti erano dei nonsense(si veda Id., Il testimone fedele, in Id., I bastardi di Voltaire. La dittatura della ragione in Occidente, cit. specialmente p. 420). 

In definitiva, per questo contesto, come per altri momenti intellettuali e culturali della modernità, è chiaro che il discorso non può mai limitarsi a casi specifici in sé; Voltaire distruggeva la credibilità del potere costituito, ma introduceva l’arma dello scetticismo che era destinato a diventare il grande strumento condiviso delle nuove elites razionali che aprirono le porte del cinismo, divennero incapaci di cogliere la relazione necessaria tra potere e moralità e frammentarono il linguaggio in gerghi esclusivi che impediscono la comunicazione: nel creare elites ossessionate dal processo intellettuale utilizzato per produrre decisioni, abbiamo in effetti eliminato il pregiudizio e la superstizione da quel processo, ma ci siamo anche messi nelle mani di uomini che non hanno rapporti con l’organismo che essi governano; allora, tutto ciò torna a richiamare più ampiamente e sempre fatalmente la questione della distorsione e dell’incompiutezza del progetto moderno, da tempo nodo gordiano della riflessione filosofica e sociologica, culturale e politica, continuamente attuale (si veda l’ormai classico Habermas, J., Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Roma-Bari, 2003).


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