Esiste certamente un nesso molto forte tra la progressiva acquisizione di una memoria del passato e lo sviluppo di un senso di coscienza: è proprio nel momento in cui individui e popoli cominciano a tracciare la propria storia che inizia la vicenda della civiltà. In tale ottica, è chiaro quindi che interrogarsi sulla Storia, anche in un senso strettamente epistemologico, costituisce una questione che trascende l’ambito puramente culturale, e che non è neppure una sorta di vezzo intellettuale, ma assume un valore sostanziale e rilevante. Dal mondo classico alla modernità, sul nodo di “cosa è la Storia”, di come vada pensata questa dimensione, si è soffermata l’attenzione di celebri studiosi, e soprattutto dal Novecento, anche in conseguenza degli enormi sbalzi e sconvolgimenti determinati da quest’ultimo secolo, si devono segnare suggestioni e dibattiti significativi. Bisogna infatti notare che il XX secolo ha costituito un’epoca per la quale è possibile individuare differenti successive immagini del suo carattere (si veda in tal senso l’interessante lettura critica di Guarracino, S., Il novecento e le sue storie, Bruno Mondadori, Milano, 1997), sia perché, differentemente dalle età precedenti, tutti i paesi sono coinvolti nella politica internazionale e la Storia come scienza ha trovato un a diffusione universale, sia perché scienze come la sociologia, la scienza politica, l’economia politica, che svolgono le loro ricerche su ambiti contemporanei, hanno offerto contributi anche a problemi storici (si veda la voce Storia contemporanea, in Besson, W., a cura di, Storia, Feltrinelli, Milano, 1971, specialmente pp. 295-296). Cominciato con una Grande Guerra che sembrava il compimento del secolo delle nazionalità, il Novecento poteva apparire all’inizio degli anni Trenta come il secolo dei nuovi sistemi, i vari fascismi e il comunismo, che si erano sostituiti con successo a quello borghese, fallito sia come economia capitalista, sia come democrazia parlamentare e etica individuale. Quindici anni dopo, il Novecento poteva presentarsi come il secolo delle guerre mondiali, dei genocidi, del totalitarismo, della guerra fredda e dei nuovi egemonismi rivali di USA e URSS; negli anni Cinquanta e Sessanta il secolo si configurava, sia per le società capitaliste che per quelle a economia pianificata, come l’epoca del più grande sviluppo economico mai conosciuto: ma negli stessi anni Sessanta il Novecento si veniva rivelando come l’epoca della rivoluzione mondiale antiimperialista; e, se già prima della fine degli anni Settanta la rivoluzione era diventata un mito, anche l’idea di uno sviluppo senza limiti diventava una breve parentesi. Fino a che, nel 1989, si ha l’impressione della fine di un ciclo con lo sfaldamento dell’impero sovietico e, con esso, dell’ordine bipolare. Non può dunque stupire lungo questo secolo la presenza di interpretazioni influenti e suggestive, in cui la riflessione storica si è intrecciata con scenari più ampi di filosofia della storia, di sociologia e scienze sociali, di visioni politiche, che tuttora paiono meritevoli di attenzione non di mera circostanza. Basti qui ricordare indicativamente le letture via via di Oswald Spengler, Arnold Joseph Toynbee, Karl Jaspers, sino a Francis Fukuyama e Samuel Phillips Huntington, per fare alcuni esempi particolarmente emblematici. Spengler, come è noto, aveva affermato l’idea cruciale che, giunti ormai all’inizio del Novecento, la civiltà occidentale avviata dalla modernità fosse giunta alla sua fase discendente e conclusiva, avendo raggiunto i suoi apici nell’Ottocento: un’ipotesi, probabilmente influenzata anche dalla percezione che si era determinata a seguito dei rivolgimenti della Prima Guerra mondiale, e derivata da un’analisi, impegnativa e densa di dettagli, che ripercorreva l’evoluzione, attraverso i secoli e gli snodi epocali, delle varie civiltà nella storia mondiale (si veda Spengler, O., Il tramonto dell’Occidente, Longanesi, Milano, 1981; mi sono impegnato in una nota di lettura in merito in Giacomantonio, F., Il Tramonto dell’Occidente, un secolo dopo, su Scenari : http://mimesis-scenari.it/2018/11/30/il-tramonto-delloccidente-un-secolo-dopo/). Toynbee, a sua volta, già secondo un canone che si può ritenere meno “apocalittico” rispetto a Spengler, aveva cercato di delineare, lungo una ricerca di ampio raggio e servendosi di un approccio comparativo, una visione ciclica della Storia al posto di una interpretazione lineare (si veda, per un quadro complessivo, la sua opera più matura: Toynbee, A. J., Il racconto dell’uomo, Garzanti, Milano, 1992). Jaspers, invece, cogliendo nel XX secolo la centralità della scienza e della tecnica, vede in questo passaggio una affinità col momento dell’affermazione delle “civiltà assiali” all’origine della storia umana e necessariamente percepisce la Storia come accadere e autocoscienza di questo accadere: con la multilateralità e la precisione dei metodi di ricerca dell’età contemporanea, siamo orientati verso l’unità dell’umanità in un senso più comprensivo e concreto di prima (si veda Jaspers, K., Origine e senso della storia, Comunità, Milano, 1972). Fukuyama e Huntington, in decenni a noi più vicini e secondo canoni più riconducibili alle scienze sociali e politiche, dal canto loro avevano proposto prospettive destinate a suscitare notevole interesse e anche alcune polemiche: il primo, infatti, con la conclusione della guerra fredda era giunto a segnare una sorta di sostanziale punto di approdo finale della storia umana, per cui trionfano gli ideali della democrazia e del liberalismo, sullo sfondo della globalizzazione (si veda Fukuyama, F., La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano, 1992); il secondo, alla luce degli ultimi scorci del XX secolo, aveva pure lui colto una sorta di mutamento storico-sociale quasi epocale, ricostruendo il ruolo di alcune civiltà fondamentali e muovendo dall’ipotesi che, finita la guerra fredda, la cultura si è sostituita all’ideologia come polo di attrazione e repulsione e, in questo contesto, il problema di rapporti delle civiltà con l’Occidente diventa, quindi, quello della discrepanza tra i tentativi dell’Occidente e dell’America in particolare di promuovere una cultura occidentale universale e la sua sempre minore capacità di realizzare questo obiettivo (si veda Huntington, S. P., Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 1997).
E, a completamento di questa rapida trattazione, non si può dimenticare che, sempre nel cuore del XX secolo, uno storico inglese importante e influente come Edward Hallett Carr aveva avvertito la necessità di scrivere, a seguito di un ciclo di conferenze, un testo dal titolo evidentemente evocativo di What is history? (si veda Carr, E. H., What is history?, Palgrave, London, 2001, edizione tenuta presente nel redigere questo saggio, e che è accompagnata da una introduzione di R. J. Evans; il testo era uscito originariamente nel 1961 e in Italia era stato tradotto presso l’editore Einaudi con il titolo Sei lezioni sulla storia, nel 1966), ponendosi appunto la questione sotto molti aspetti decisivi. In quest’ultimo libro, viene avvertita fortemente l’idea della Storia come processo, per cui le analisi dello storico devono tenere presenti contesti e interconnessioni di ciò che si decide di studiare: gli storici sono individui del loro tempo con punti di vista e assunzioni che fatalmente ricadono nelle loro ricerche. La domanda che intitola il libro di Carr, “cosa è la Storia?”, coglie il problema epistemologico che è sotteso a questo campo del sapere umano, soprattutto in una fase come quella attraversata da Carr, in cui gli sviluppi della filosofia della scienza ponevano chiaramente la relatività di ogni ricerca, segnando una transizione decisiva da una visione statica a una visione dinamica della scienza. Carr ha la consapevolezza che la concezione della Storia nel XX secolo sta avendo uno sbalzo rispetto alle acquisizioni che avevano caratterizzato il XIX secolo, fondamentalmente perché, mentre l’Ottocento, a seguito del trionfo del Positivismo e della sua enfasi sui fatti come dati, conseguentemente determinava anche la dottrina del primato e dell’autonomia dei fatti nella Storia, il Novecento invece porta un modo diverso di pensare la Storia: essa infatti comincia a consistere nel vedere il passato attraverso gli occhi del presente e alla luce dei suoi problemi, e quindi il compito principale dello storico non è quello di registrare i fatti, ma di valutare (si veda ivi, specialmente p. 15).
Ora, tutte queste possibili tappe intellettuali specifiche, che nel XX secolo inducono a riflettere sulla Storia, avvicinando la conoscenza storica a sensibilità filosofiche, epistemologiche, sociologiche e politiche in varia misura, evidenziano uno sguardo critico di fondo e un gusto per la visione d’insieme, per l’ampliamento degli orizzonti: in questi autori il discorso sulla Storia è anche necessariamente un discorso sulla civiltà (in tal senso una recente lettura critica d’insieme che si può suggerire è Allodi, L., a cura di, Sociologia comparata delle civiltà, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2024). Ovviamente, tutti i contributi che abbiamo qui considerato non sono scevri da nodi problematici, ma hanno avuto un ruolo decisivo e costituiscono fonte di suggestioni comunque proficue. Il Novecento ha lasciato quindi una cifra importante tanto nei suoi processi storici, quanto nel suo modo di elaborare il senso della Storia. E oggi, nell’epoca attuale del XXI secolo, con quale condizione si deve rapportare questa cifra? A ben guardare, il XXI secolo, almeno per quanto possiamo considerare in questo suo primo scorcio, sembra privilegiare prospettive in generale molto asettiche rispetto al Novecento e se il secolo scorso, come abbiamo visto, aveva rimarcato molto il senso della Storia, quello attuale, anche valutando proprio le implicazioni delle prospettive passate e ponendosi come età decisamente e marcatamente post-ideologica (sulla condizione post-ideologica contemporanea mi sono impegnato in Giacomantonio, F., La condizione post-ideologica, GoWare, Firenze, 2022), rifugge filosofie della storia e eccessi politici nella considerazione degli eventi. Sembra così prevalere attualmente un’idea della conoscenza dei fatti storici incentrata su un gusto documentaristico e culturale favorito dal contesto sempre più mediatico e incline a spettacolarizzare e a creare una “fruizione”, anche attraverso festival o programmi divulgativi. Questa condizione tende a far affermare, nella visione della Storia, come in molti altre situazioni più in generale, un approccio analitico più che sintetico e evidenzia la attuale impasse del pensiero critico. Oggi, quindi, rispetto a questo orizzonte, appare importante non trascurare la conoscenza della Storia che tenga conto di una più ampia visuale filosofica e politica, come quella che abbiamo richiamato sopra in varie forme nel XX secolo, perché proprio quel tipo di letture, anche al di là degli ovvi aspetti problematici che hanno comportato, comprendono appieno e trascendono la Storia, dando un contributo alla coscienza di sé della società in chiave di diagnosi di un’epoca e più in generale di autocritica della ragione: la questione di “cosa è la Storia”, dopo il XX secolo va quindi inquadrata nella cornice complessa e globale del pensiero critico, che conserva sempre un’ ”eccedenza” rispetto agli interrogativi sollevati dai problemi della condizione storica (per una recente lettura che riconsidera gli snodi essenziali della vicenda del pensiero critico alla luce del disincanto postmoderno, si può rimandare a De Simone, A., L’eccedenza del concreto. Il pensiero possibile-Ritratti di filosofia critica, Mimesis, Milano, 2024, specialmente sezione II: L’occhio nell’abisso e la freccia del tempo, pp. 249-366). Tutto ciò chiaramente non significa trascurare gli sviluppi sempre più specialistici che il XXI secolo sta determinando sulla scia dei suoi assidui avanzamenti comunicativi e informatici, da ultimo favoriti dall’intelligenza artificiale, ma comporta la consapevolezza che il progresso nella scienza, nella storia e nella società, non dipende, come già ricordava Carr (si veda Carr, E. H., The Widening Horizon, in Id., What is history?, cit., specialmente pp. 150-151), tanto dalla prontezza degli uomini a confinarsi nella ricerca di miglioramenti parziali nel modo di fare le cose, ma nell’affrontare sfide fondamentali in nome della ragione. Da questo punto di vista, la autentica conoscenza storica, senza ricadere in metafisiche hegeliane, appare quella che continua, nell’alveo del pensiero critico, a contenere elementi filosofici, politici e sociologici.