Tra epistemologia e filosofia della storia: il senso della scienza politica nell’eredità di Voegelin

Nel dibattito epistemologico sulla scienza politica attraverso il Novecento, aveva assunto un  peso significativo la consapevolezza che l’elevazione di questa disciplina alla dignità di scienza teorica non potesse verificarsi subordinando la validità teorica al metodo e dimenticando i contesti storici e filosofici in cui le analisi politiche si collocavano (per una autorevole lettura d’insieme in merito si consideri Pasquino, G., La scienza della politica, in Andreatta, A., Baldini, A. E., Dolcini, C., Pasquino, G., a cura di, Il pensiero politico. Idee, teorie, dottrine, vol. III, tomo II: Ottocento e Novecento, Utet, Torino, 1999; mi sono impegnato sulle evoluzioni della scienza politica novecentesca in Giacomantonio, F., Osservando la scienza politica nel “secolo breve”. Questioni epistemologiche, contesti teorici, eredità, in «Rivista Internazionale di Filosofia del diritto», Giuffrè, Milano, n. 3-4, luglio-dicembre 2022). Eric Voegelin fu uno dei maggiori studiosi che insistettero su questo punto (in particolare in Voegelin, E., La nuova scienza politica, Borla, Milano, 1999): egli riteneva che, se un determinato metodo è assunto a criterio di validità di una scienza, allora va completamente perduto il significato stesso della scienza come spiegazione veritiera della struttura della realtà, come orientamento teorico dell’uomo nel mondo in cui vive. Si tratta qui di intendere la scienza politica come scienza dell’uomo nell’esistenza storica e, di conseguenza, il suo oggetto, i fenomeni politici nella loro storicità, non può essere studiato alla stregua di un fenomeno naturale (si veda Id., Rappresentanza e esistenza, in Id., La nuova scienza politica, cit., specialmente p. 61).  Per Voegelin, che non ritiene possibile creare per la scienza politica un nucleo scientifico politico di proposizioni paragonabile a quello della matematica e che ciò sia un aspetto consustanziale al particolare rapporto tra scienza e realtà nel campo politico,  l’essenza della scienza politica è una interpretazione noetica (ossia fondata su un sapere critico consapevole della non esaustività del simbolo) dell’uomo, della società e della storia, che si presenta di fronte alla concezione dell’ordine della società in cui avviene, con la pretesa di una conoscenza critica dell’ordine e che deve comunque trovarsi in tensione storica con interpretazioni non noetiche, quali mito, teologia o ideologia (si veda Id., Che cos’è la realtà politica?, in Id., Teoria della storia e della politica, Giuffrè, Milano, 1972, specialmente p. 198). Il senso più profondo di una scienza politica in questa ottica si determina nello studio dell’ordine politico discendente dai contesti storici in cui esso si manifesta nelle sue rappresentazioni socialmente condivise (si veda Id., La politica: dai simboli alle esperienze, Giuffrè, Milano, 1993). Quindi, si può dire che l’impostazione di Voegelin mirasse a non distogliere dalla preoccupazione critica a vantaggio del “come e perché” che diventano indistinguibili in altri modelli di ricerca che caratterizzano la disciplina nella seconda parte del Novecento (si veda la lettura critica di Sebba, G., Introduzione alla filosofia politica di Eric Voegelin. Il mito della comunità e la società razionalizzata, Astra, Roma, 1985). La prospettiva di Voegelin dunque salda la scienza politica con la filosofia della storia, lasciando così una eredità così piuttosto “eccentrica” rispetto ai canoni di ricerca degli ultimi decenni in questo contesto, soprattutto perché, a partire dall’ultimo scorcio del XX secolo, richiamare in causa la filosofia della storia appare una scelta problematica, o suscettibile di questioni ideologiche. Infatti, in questa fase, anche a seguito delle notissime posizioni di epistemologiche di Karl Popper (si veda naturalmente l’ormai classico Popper, K.R., La società aperta e i suoi nemici, 2 voll., Armando, Roma, 2003, nonché Id., Misera dello storicismo, Feltrinelli, Milano, 2002) che hanno segnato il dibattito intellettuale in merito,  la filosofia della storia è stata spesso valutata con diffidenza, come qualcosa di ideologico e non scientifico che ha destato polemiche, tanto più se utilizzata nell’analisi politologica: basti pensare ai dibattiti critici determinati dal celebre studio di Francis Fukuyama fondato sull’idea della democrazia liberale come esito ultimo della civiltà occidentale (si veda Fukuyama, F., La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano, 1992), secondo una prospettiva influenzata dal pensiero hegeliano; oppure si pensi a un’altra teoria politologica rilevante nel dibattito tra la fine del Novecento e i primi decenni del XXI secolo, ossia quella di Samuel Huntington (si veda Huntington, S. P., Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 1997), che sembra sottendere una filosofia della storia, quando essa vede, negli ultimi anni del XX secolo, una sorta di mutamento storico-sociale quasi epocale, muovendo dall’ipotesi che la cultura e le identità personali abbiano grande influenza sui processi di coesione e conflittualità che caratterizzano il mondo dopo la fine della Guerra Fredda. In realtà, nel contesto delle scienze sociali e politiche, si deve osservare che l’importante politologo francese Maurice Duverger sottolineava che, sebbene la filosofia della storia non potesse costituire una spiegazione soddisfacente dell’evoluzione generale delle società, essa comunque permette interessanti ipotesi di lavoro, suggerendo idee che possono diventare feconde (si veda Duverger, M., Le diverse scienze sociali, in Id., I metodi delle scienze sociali, Etas Kompass, Milano, 1967, specialmente pp. 92-93).  Il punto è che, a volte, in alcuni studi e ricerche, il confine tra analisi storica, filosofia della storia e scienza politica può diventare sottile. 

Ora, la cifra teorica di Voegelin sta proprio nell’essere qualificato sia come politologo che come filosofo della storia ed è sintomatico in questo aspetto come egli apprezzasse notevolmente l’opera di un altro grande filosofo della storia, ossia Gian Battista Vico, che egli non aveva remore a ritenere come uno dei fondatori della moderna scienza politica (si veda Voegelin, E., La “scienza nuova” nella storia del pensiero politico, Guida, Napoli, 1996). Nella filosofia della storia vichiana, infatti, Voegelin coglie elementi basilari per una autentica scienza politica, poiché essa si oppone alle pretese esuberanti del metodo della scienza dei fenomeni naturali di essere un modello per tutta la scienza, mettendo così in discussione l’idea cartesiana della ragione come principio creativo indipendente e sottolineando invece appunto la storicità dell’esistenza (si veda Id., Conclusione, in Id., La “scienza nuova” nella storia del pensiero politico, cit., specialmente p. 104). L’alta considerazione di Voegelin per Vico e la valorizzazione della sua visuale è quindi assai cruciale, perché i limiti dell’impostazione cartesiana, che estendeva il modello delle scienze naturali a tutte le scienze, sono stati spesso colti nel XX secolo e in particolare si può ad esempio ricordare che, nelle scienze sociali e politiche, anche Friedrich Hayek, formatosi come Voegelin all’università di Vienna,  difende proprio un “razionalismo evoluzionistico o critico” (fondato sull’idea della possibilità di sottoporre le teorie a controlli di falsificazione), contrapposto al fallace “razionalismo costruttivista”, che viene fatto risalire appunto a Renè Descartes, in cui si  intendeva per azione razionale solo quel tipo di azione interamente determinata da verità note e dimostrabili, comportando così  la rimozione dell’elemento della tradizione e della storia (si veda Hayek, F. A., Razionalità e evoluzione, in Id., Legge, legislazione, libertà, Il Saggiatore, Milano, 2000); inoltre, dal generale punto di vista filosofico, sono ampiamente note le invettive di Edmund Husserl che aveva colto che l’esclusività con cui, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, la visione del mondo complessiva dell’uomo moderno accettò di venir determinata dalle scienze positive, comportò un allontanamento da quei problemi che sono decisivi per una umanità autentica (si veda Husserl, E., La crisi e la vita dell’umanità, in Id., La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano, 1997, specialmente p. 35).  Voegelin, tuttavia, è forse lo studioso che più esplicitamente inquadra questo tipo di problemi rispetto specificamente alla scienza politica e, al contempo, sottolineando il valore della filosofia della storia di Vico, delinea una impostazione in cui la scienza politica viene a configurarsi in un senso più ampio e denso rispetto a quello più tecnico che caratterizza i paradigmi più recenti della disciplina. A ben guardare, Voegelin, partendo dagli studi delle scienze politiche e giuridiche, attraverso un ingegno versatile, è stato il teorico della politica che più di ogni altro nel Novecento ha ricompreso la disciplina entro un’orbita filosofica, incarnando un profilo condiviso dai maggiori filosofi della tradizione occidentale, da Platone a Georg Hegel, prima che il legame tra filosofia e discipline di matrice antropologica venisse rescisso dal positivismo comtiano (per una lettura critica si veda Scotti Muth, N., Eric Voegelin (1901-1985), in Allodi, L., a cura di, Sociologia comparta delle civiltà, Rubettino, Soveria Mannelli, 2024, specialmente pp. 285-286). Ovviamente, nella fase attuale di inarrestabile settorializzazione, la lettura di Voegelin, vista la sua articolazione, determina una ricezione complessa e impegnativa sia dal punto di vista sociologico-politologico che da quello filosofico, ma il suo approccio, in effetti, fornisce un potenziale complemento a quelli oggi diffusi e affermati che approfondiscono la politica comparata, le culture politiche e le evoluzioni delle istituzioni politiche, mostrando l’importanza di distinguere concetti e teorie senza per questo scinderli ingenuamente, come troppe volte avviene nella cultura contemporanea. 


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